È tornata in Palestina la bambina attaccata ai palloncini che vola in alto per superare il Muro costruito da Israele in Cisgiordania. A sei mesi esatti dal cessate il fuoco tra Hamas e Israele, Banksy, invisibile come sempre, ha lasciato il suo segno per dirci che non dobbiamo dimenticare Gaza, che dobbiamo schierarci con l’oppresso perchè dichiararsi neutrali significa mettersi dalla parte del’oppressore. Per questo viaggio tra le macerie della Striscia, dove il più famoso writer del mondo ha dipinto quattro graffiti, Banksy ha scelto, attraverso il video che ha girato, di presentarsi come una sorta tour operator per invitare il mondo a «scoprire Gaza, una nuova destinazione fuori dai circuiti turistici che gli abitanti amano così tanto da non lasciarla mai e sono sorvegliati da vicini amichevoli». Si tratta del progetto più politico mai realizzato dall’artista britannico. Il primo graffito lasciato a Gaza è ispirato a “Il pensatore” di Auguste Rodin. Banksy lo ha realizzatosui resti di un muro e si intitola “Bomb damage”. In un altro si scorgono bimbi su una giostra, nel terzo una gatta con un vistoso fiocco roso al collo che dice al mondo che «si sta perdendo la bellezza della vita». Una scritta di colore rosso su un muro bianco infine afferma: «Se ci disinteressiamo del conflitto tra i forti e i deboli, ci mettiamo dalla parte dei forti, non siamo neutrali».

 

Banksy che, alle prime luci del giorno, si aggirava tra le rovine di Gaza, ha fatto per gli sfollati e le vittime dell’offensiva israeliana “Margine Protettivo” più di tanti comunicati, servizi giornalistici, di rapporti letti o ascoltati in questi mesi. La sua mano di artista ha sollevato il velo che la “comunità internazionale” ha steso sulla vita di 1,7 milioni di palestinesi che continuano ad essere, anche più di prima, prigionieri nella loro terra, schiacciati tra le “chiusure” attuate da Israele ed Egitto. Il filmato girato dal writer mostra le difficili condizioni di vita della popolazione, bambini appollaiati su macerie, uomini intenti a preparare ripari per chi non ha più un tetto. Con amara sottile ironia Banksy ci dice che «le possibilità di sviluppo» sono ovunque e «c’è abbondanza di spazio per la ristrutturazione». Ci ricorda che sono state 18mila le case distrutte dai bombardamenti israeliani (in realtà sono molte di più, dicono i dati delle Nazioni Unite).

 

Per sei mesi i 100mila sfollati di Gaza hanno atteso pazientemente di essere risistemati. Hanno affrontato un inverno più freddo del solito, in tende e alloggi precari, i più “fortunati” in case mobili o da amici e parenti adattandosi a vivere anche in 10-15 in un paio di stanze. Più di 10mila sono ancora in 14 scuole, incapaci di trovare un’altra sistemazione. E chi la propria casa non l’ha vista polverizzata da tiri di artiglieria o da bombe sganciate dagli aerei, non ha molto di più di quelle pareti e deve fare i conti ogni giorno con la disoccupazione e la miseria. Un milione e 700 mila palestinesi che sono stati ingannati dalla conferenza dei donatori dello scorso ottobre al Cairo, dalle abituali promesse non mantenute dai “fratelli arabi”. L’Unrwa, l’agenzia dell’Onu che assiste i profughi palestinesi, ha investito decine di milioni di dollari per avviare le riparazioni delle case danneggiate ma ancora agibili e per pagare l’affitto a molte famiglie di sfollati. 47 mila persone sono state in grado di acquistare qualche sacco di cemento e altri materiali per le costruzioni, sufficienti per riparare una o due stanze. Poi anche quei fondi sono finiti, altri non ne sono arrivati e l’agenzia dell’Onu ha dovuto ridimensionare il suo impegno. A complicare ulteriormente una situazione a dir poco disperata c’è il litigio infinito tra l’Anp di Abu Mazen e il movimento islamico Hamas.

 

«La mancanza di progressi ha approfondito i livelli di disperazione e frustrazione tra la popolazione» si legge in un documento diffuso da 30 agenzie umanitarie, tra cui l’Unrwa e Oxfam, «solo una minuscola parte dei 5,4 miliardi di dollari promessi al Cairo ha raggiunto Gaza…il ritorno alle ostilità è inevitabile se non ci saranno progressi e le cause profonde del conflitto non saranno affrontate».