Se per soddisfare l’ansia di bilanci dettata dal rituale di ogni centenario – quello della nascita di Roland Barthes cade fra pochi giorni, il 12 novembre – si ricorresse all’evidenza spiccia del mercato librario italiano, la risposta risulterebbe inappellabile. Invecchiano bene i Miti d’oggi (del 1957), cronaca frammentaria, ma di insuperata lucidità e forza corrosiva, di quella modernizzazione postbellica da cui ancora discende il nostro presente.
Viva è anche la cosiddetta trilogia letteraria, composta dal bricolage autobiografico del Barthes di Roland Barthes (del 1975), dai Frammenti di un discorso amoroso (del 1977), e soprattutto dalla Camera chiara, il libro folgorante sulla fotografia – uno dei più belli del Novecento – uscito nel 1980, poche settimane prima della morte del suo autore, che a conclusione di un percorso intellettuale interamente votato allo studio dell’artificio semiotico, della codificazione, contaminazione e disseminazione dei linguaggi, fa i conti con «il risveglio dell’intrattabile realtà», esibendo il trauma immedicabile della perdita dell’essere amato (la scomparsa della madre Henriette). Per questo, come rifiuta ogni pertinenza esistenziale all’elaborazione del lutto teorizzata dalla psicoanalisi, Barthes nega paradossalmente all’immagine fotografica ogni statuto di ars, leggendola solo, con pietas struggente e vertiginoso paralogismo, come «un’emanazione del referente». Perché «la foto dell’essere scomparso viene a toccarmi come i raggi differiti di una stella», è «il passato e il reale insieme». Nell’anno stesso che segna, nelle semplificazioni storiografiche, con l’esaurimento delle avanguardie e dei movimenti di contestazione, il definitivo ritorno all’ordine (del romanzo tradizionale, e della Storia borghese), uno dei protagonisti della svolta linguistica e ermeneutica degli anni sessanta scrive un libro sull’opacità mortuaria del referente, la cui «certezza» impone di «sospendere l’interpretazione». Nella negazione, a suo modo lacaniana, della possibilità stessa di un metalinguaggio, si chiude un’epoca.

Così, oggi può apparire morto il Barthes critico letterario. Non sono più ristampati, in Italia, testi che fino a vent’anni fa erano presenza canonica in ogni bibliografia d’esame universitario: un testo-feticcio del formalismo strutturalista come Introduzione all’analisi strutturale dei racconti (del 1966) e il modello precoce di ogni ermeneutica post-strutturalista, S/Z (del 1970). Di quest’ultimo, labirintica lettura, o anzi riscrittura, della polisemia di un racconto di Balzac, Sarrasine, Michel Foucault ebbe a dire: «la prima vera analisi testuale che io abbia mai letto». Eppure oggi appare ai più illeggibile.

Il referto del mercato sembra confermare, come prevedibile, un tenace luogo comune: ci sono due Barthes, lo scrittore e il critico; e se la fortuna di quest’ultimo si è eclissata, al pari delle mode culturali e dei metodi che di volta in volta ha lanciato, adottato, o smantellato dall’interno, quella delle opere creative trova invece cauzione non esauribile in quel «piacere del testo» che dà il titolo al saggio del 1973, da molti considerato come lo spartiacque fra una prima e una seconda maniera. Per quanto grossolano, il dualismo potrebbe apparire in prima approssimazione esatto, se non fosse smentito dall’unitaria tensione, intellettuale e propriamente erotica, che dà forma e compattezza all’intero corpus di Bathes: quella tensione che mira a abolire ogni distinguo fra scrittura e lettura, testo e commento, teoria e pratica letteraria, opponendo all’estetica della purezza un’etica della contaminazione; e che sfocia in un’apologia del concetto cui è dedicato il seminario del 1978, il «neutro», inteso come strumento filosofico capace di sciogliere il legame fra segno e referente, svuotando categorie e antinomie (culturali, sociali, sessuali). Un’apologia tanto più significativa nel momento in cui, puer senex, l’attempato orfano contempla nella più derelitta disperazione la fotografia ritrovata della «madre-bambina», da cui prende l’abbrivio esistenziale la scrittura della Camera chiara.

Perciò è tutto Barthes a risultare ancora vivo, soprattutto nei suoi paradossi. Sempre incline, per curiosità intellettuale e slancio di desiderio, a accompagnare con la riflessione teorica le sperimentazioni delle avanguardie (dal nouveau roman a «Tel Quel»), e disposto a dar credito alle avventure intellettuali delle generazioni più giovani, Barthes ama in realtà i classici. È a suo agio nel grand siècle di Racine e dei moralistes e anche (forse soprattutto) nel secolo della vituperata narrativa realista, in quell’Ottocento di cui ha studiato una delle figure emblematiche nel giovanile Michelet (del 1954). Perfino quando riserbo, misura, distacco – i tratti umani che ne caratterizzano la personalità pubblica – si rovesciano in provocatoria iattanza; perfino quando la violenza dello scritto sembra negare la delicatezza del tratto, è sempre in difesa della letteratura che alza i toni: del tutto a torto è stata imputata a Barthes – come del resto a Derrida, cui lo accomunano l’elogio dell’écriture e l’idea di un continuo differimento del senso – qualche responsabilità nella dissoluzione del concetto stesso di letteratura consumatasi nel passaggio fra decostruzionismo e cultural studies.

In realtà, la denuncia famigerata, nella lezione inaugurale al Collège de France, della natura intrinsecamente dispotica della comunicazione linguistica (la lingua sarebbe senz’altro «fascista»: affermazione, va da sé, in buona logica autocontraddittoria) è certo omaggio all’amico e rivale Foucault: riprende infatti, con spettacolare rincaro, le sue analisi sul discorso del potere; ma solo per sottrarre, contro Foucault, la scrittura letteraria a ogni ipoteca della doxa dominante, facendone lo spazio del desiderio – spazio trasgressivo, erotico, libero, precisamente perché neutro. In questo senso, l’ipotesi restaurativa, con tanto di ritorno alla storia letteraria, formulata dal più intelligente e opportunista fra gli allievi di Barthes, Antoine Compagnon, non è solo apostasia, non segna solo la vittoria della vecchia Sorbona; è anche inveramento, parziale e distorto, di una possibile involuzione che la morte precoce ha inibito allo stesso autore del Piacere del testo.

Proprio gli ultimi libri, infatti, pur adottando con più esibita (e disinibita) libertà forme frammentarie e centrifughe, pur destrutturando il racconto, disseminando l’argomentazione, ostentando l’Io – non più proscritto – nella sua fragile, oscillante contingenza, ritrovano paradossalmente la lezione dei classici, soprattutto dei Pensieri di Pascal. Perciò l’opera di Barthes è forse, in tutto il secondo Novecento, la più cospicua fonte di scintillanti aforismi: mai esenti dal sospetto, tormentoso innanzitutto per l’autore, di alimentare con brillante facilità la presunta «impostura», di cui lo tacciava l’establishment conservatore; e invece capaci, sempre, di far nascere dall’aporia un pensiero che s’identifica con l’atto stesso della scrittura.

Una di queste frasi memorabili sembra attagliarsi al centenario: «La Storia è isterica: essa prende forma solo se la si guarda – e se la si guarda bisogna esserne esclusi». Per questo il contributo di gran lunga migliore, fra i molti usciti quest’anno, è il libro di una studiosa, Tiphaine Samoyault, esclusa per ragioni anagrafiche da ogni diretta discendenza, ma coinvolta in un’avventura intellettuale che sente vitale e inevitabile, per noi, nella difficile ricerca di conciliazione fra desiderio e verità. Il suo Roland Barthes (Éditions du Seuil, pp. 720, euro  28,00) è molto più di una biografia, anche se attinge copiosamente alla mole ancora cospicua dei diari e degli appunti inediti; è un libro che attraversa mezzo secolo di cultura non solo francese, alternando ricostruzione della vita, analisi delle opere, confronto con altri protagonisti della scena letteraria (Gide, Sartre, Sollers, Foucault). Senza condiscendenza apologetica, se è vero che non esita a stigmatizzare qualche indizio di sudditanza ideologica, sia pure riluttante, nei confronti del gruppo di «Tel Quel» (con relativa infastidita cecità durante il viaggio nella Cina maoista del 1974); senza compiacimenti scandalistici; senza ridurre, soprattutto, a tesi o fattizia coerenza il magma incandescente della vita e dell’opera.
Samoyault riesce insomma a sottrarsi alle secche delle due dominanti letture antitetiche, che fanno del personaggio forse più rappresentativo della cultura francese del secondo Novecento di volta in volta un terrorista delle lettere o un pontefice fumista. Letture entrambe inclini a dimenticare quanto scrive Barthes nel Piacere del testo: «Né la cultura né la sua distruzione sono erotiche; è la faglia fra l’una e l’altra che lo diventa».