Quando la sera del 25 febbraio 1980, proprio di fronte al Collège de France e mentre attraversava la strada, Roland Barthes venne investito da un furgone, alcuni tra coloro che lo conoscevano più intimamente parlarono subito e senza mezzi termini di incidente «sospetto». E un mese dopo, il 26 marzo, quando il grande critico morì in una corsia dell’ospedale La Pitié-Salpêtrière in seguito alle ferite riportate, gli stessi si dissero convinti che «non aveva voluto» guarire e che insomma si era ostinato ad andarsene, a nessuno (dopo la scomparsa della madre amatissima) e a niente, nemmeno alla sua scrittura e al suo lavoro, sentendosi legato; sciolto ormai da ogni obbligo sentimentale ed evaporato in un lutto insanabile il motore del desiderio che muoveva, per lui, indissolubili, tragicamente intrecciate, la vita e la ricerca.
Il progetto «Vita Nova»
Questo cammino, cominciato fin dalla giovinezza, avrebbe dovuto portarlo alla Vita Nova, un progetto assai libero, interamente narrativo, compimento estremo e radicale di un percorso che da sempre era stato pensato come eretico, fuorilegge, rischiarato da ogni obbligo di scuola, per colui il quale nel 1967 aveva dato alle stampe l’indigesto e pressoché illeggibile Sistema della moda e che tuttavia, dieci anni dopo, non si era preoccupato di indispettire l’ortodossia strutturalista pubblicando Frammenti di un discorso amoroso (un grande successo editoriale, anche qui, definito a quel tempo più che «sospetto») e a seguire, nel 1980, La camera chiara, proprio mentre stava lavorando al Diario di lutto. Ma già nel gennaio del 1966, occorre ricordarlo, quel sospetto era quasi una certezza per Lévi-Strauss, secondo cui – ecco la nota di disaccordo espressa in una lettera improntata a esemplare e aciutta chiarezza – in Critica e verità si colgono i segni «di un eclettismo che si manifesta con troppo compiacimento nei confronti della soggettività, dell’affettività, e – diciamolo – con un certo misticismo di fronte alla letteratura». E aggiunge, e sembra un richiamo all’ordine: «Per me, l’opera non è aperta (concetto che la espone alla peggiore filosofia: quella del desiderio metafisico, del soggetto giustamente negato, ma per ipostatizzare la sua metafora ecc.), anzi è chiusa, ed è proprio questa chiusura che permette di farne uno studio oggettivo. In altre parole, non separo l’opera dalla sua intelligibilità: l’analisi strutturale consiste, al contrario, nel ripiegare l’intelligibilità sull’opera. E a meno di non ricadere in un’ermeneutica à la Ricoeur, mi pare che si debbano distinguere più radicalmente di quanto faccia lei le forme simboliche integralmente e oggettivamente determinabili (le uniche che mi interessano) dai contenuti insignificanti che gli uomini e i secoli possono riversarvi sopra». In maniera fin troppo schematica e franca, l’intelligenza di Lévi-Strauss, di certo senza volerlo, disegna qui un involontario e però attendibile ritratto di Barthes e, in particolare, del Barthes a venire, quasi in chiave di bilancio critico stilato a posteriori.
Serrata corona epistolare

Questa lettera – insieme a molte altre e poi a inediti e a scritti di varia natura – la troviamo raccolta in un bellissimo, commovente volume intitolato Album (il Saggiatore, traduzione di Deborah Borca, pp. 489, euro 35,00) che Éric Marty ha curato lo scorso anno, in occasione del centenario della nascita, per le Éditions du Seuil, la casa editrice alla quale Barthes volle restare fedele per tutta la vita. Nella serrata corona epistolare – che abbraccia un arco temporale che va dal 1932 all’anno della morte – passa un mondo, non soltanto una vicenda privata, intima, còlta nei suoi subitanei impulsi, nei turbamenti, nella febbre di un inarrestabile sperimentare, nei mancamenti di volontà, nei dolori e nei lutti, negli entusiasmi ritrovati e negli scoramenti. Passa un mondo, dunque, con al centro uno dei suoi protagonisti. Il cuore stesso del Novecento francese che simbolicamente si chiuderà con la morte di Barthes: da Queneau a Camus, da Béguin a Sartre, da Bachelard a Genet, da Leiris a Frenaud, da Nadeau a Butor, da Pinget a Nathalie Serraute, da Robbe-Grillet a Tournier, da Blanchot ad Althusser, da Marthe Robert a Foucault, da Char a Starobinski, da Klossowski a Perec, da Derrida a Julia Kristeva, da Le Clézio a Simon, da Compagnon a Guibert e a Renaud Camus (per il quale scriverà la prefazione a Tricks), insieme a tanti altri. E poi le riviste, «Combat» ed «Esprit», «Lettres nouvelles» e «Critique», «Arguments» e «La Quinzaine littéraire» e «Tel Quel», autentiche comunità.
Diviso in sei tronconi – rispettivamente intitolati «Dall’adolescenza al romanzo del senatorio 1934-1946», «Il primo Barthes», «I grandi legami», «Lettere intorno ad alcuni libri», «Scambi» e «Vita Nova» – Album attraversa dunque, dal di dentro, l’intero fluire delle opere di Barthes e del suo laboratorio anche mentale, da Il grado zero della scrittura (’53) alla prima serie dei Saggi critici (’64), dall’exploit mediatico di Miti d’oggi (’67) a L’impero dei segni (’70), da Il piacere del testo (’73) al Barthes di Roland Barthes (’75), già tutto immerso nella cosiddetta fase narrativa e laddove l’urgenza autobiografica, così aperta e lancinante, finisce per mettere in scacco confini di genere e campi separati.
Il tempo dell’ansia
Ma cè un prima, si diceva, una preistoria, gli anni della formazione, il tempo dell’ansia che per Barthes non ebbe fine mai. La tubercolosi, i frequenti ricoveri in sanatorio, le visite di controllo che si protrassero fino all’immediato dopoguerra. «Ho ereditato – scrive a un amico –, la psicologia del malato; un’inezia mi spaventa, un’inezia mi calma. La giornata trascorre in deduzioni, a cercare correlazioni tra sintomi e cause esterne La tubercolosi è una condizione grave attraverso cui – sia nei fatti, sia nell’immaginazione – si giunge ben presto alla morte». Sono, le lettere dalla malattia, in tutto e per tutto febbrili, pulsanti di paura e di desiderio, regolate da un orologio interiore accelerato e tumultuoso. In questo spazio di tempo alterato si situano le grandi letture formative – vale a dire Valéry, Mallarmé, Proust, Pascal e tutto il teatro di Racine (molto più avanti, nel 1963, uscirà un saggio esemplare) –, la musica (Debussy in primo luogo), lo studio del canto (la grana della voce) e l’acuto, persistente e mai rettilineo pensiero sul romanzo, il proprio naturalmente. Nel gennaio del 1934 scrive di avere smesso di pensarci, trattandosi «per definizione» di «un genere antiartistico, dove la forma è un accessorio di fondo e dove la psicologia soffoca inevitabilmente l’estetica». Ma a luglio le intenzioni cambiano: «Da quando mi sono ammalato, la mia vita è molto più intensa, molto più calda. Se vogliamo, prendo sempre più coscienza del mio io. Ho in mente diverse idee di romanzo, ma non so decidermi a scrivere. Credo che sia solo perché mi affatica». C’è già tutto Barthes, se vogliamo, nelle lettere giovanili, certo la sete inesausta di una conoscenza che aspira all’enciclopedico – come si vedrà: oltre alla letteratura, il teatro, il cinema, le arti figurative, la musica, lo sguardo sociologico e analitico all’attualità e altro ancora –, ma inoltre, sebbene allo stato nascente, una dinamica di costante slittamento da un codice all’altro, una pratica che infine farà somigliare i suoi lavori, tappa dopo tappa, libro dopo libro, a una serie di tasselli che solo paradossalmente e in via postuma finiscono per combaciare.
Nel decennale della morte, Giuliano Gramigna, un barthesiano della prima ora, mise con forza in evidenza questo tratto, invitando a guardare a quell’opera «più che come una catena di libri come una serie di interstizi, di luoghi rimasti vacanti per scritture immaginarie, possibili, almeno altrettanto significative di quelle in effetti prodotte». Nulla dunque impedisce di pensare che proprio Vita Nova sia il più prezioso tra quegli interstizi. Forse sarebbe stato, per Roland Barthes, il suo Petrolio.