Uno psichiatra che insegna e esercita negli Usa, Irvin D. Yalom, è diventato anche un romanziere famoso inventando storie sulla vita di filosofi molto importanti, come Nietzsche e Schopenhauer. Sto finendo di leggere uno dei suoi romanzi più recenti (giunto in Italia alla decima edizione, Neri Pozza), Il problema Spinoza, basato su una azzardata vicenda parallela tra la vita e il pensiero dell’ebreo scomunicato Spinoza, e quella del nazista ferocemente antisemita Alfred Rosemberg.

La circostanza mi suggerisce una parola che è un nome proprio, ma anche un vocabolo con un suo significato. È il nome di Spinoza, Benedetto, nella nostra lingua. Baruch per gli ebrei (con il simile Barak per gli arabi), Bento in portoghese, Benedictus in latino. Nel romanzo, e anche – credo – nella vita reale del filosofo, Spinoza usò queste diverse versioni del suo nome (tranne quella in arabo). Oltre che l’anonimato con cui furono pubblicate alcune sue opere, come il Trattato teologico-politico, che scandalizzò tutte le chiese e i poteri del tempo. Giacché perorava un’idea di libertà basata sulla ragione e non su dogmi e pregiudizi o sulla forza del potere, fin dal sottotitolo (…la libertà di filosofare non soltanto può essere concessa salve restando la pietà e la pace dello Stato, ma piuttosto non può essere negata se non distruggendo insieme la pietà e la pace dello Stato).

I mutamenti del nome per Spinoza, ebreo portoghese fuggiasco in Olanda dalla persecuzione cattolica, e poi bandito anche dalla sua Sinagoga, parlano dell’impossibilità per un uomo libero di riconoscersi completamente in un comunità che si autodefinisca con norme rigide, che escludono altre culture e altre idee, altre persone.

D’altra parte in questo caso il significato del nome fa singolarmente risaltare l’ottusità di queste culture: infatti quel nome, in tutte le lingue, e fin da tempi remoti, significa la stessa cosa, la condizione di chi è ” ricco di benedizioni divine”. Una condizione di favore religioso che, alla lettera, evoca per noi anche la facoltà di usare bene il dire, le parole che si pensano e si pronunciano.

Questo farebbe pensare alla possibilità di parlarsi, effettivamente, anche da comunità e culture diverse. Purtroppo se nel ’600, nei decenni precedenti e ancora all’epoca di Spinoza, le guerre di religione avevano provocato stragi immani e persecuzioni nel cuore dell’Europa, ancora oggi questo dialogo è difficile, a volte impossibile, e spesso genera violenze inaudite.

Pensieri ritrovati domenica nel lungo commento di Luca Ricolfi sul Sole24ore (“La globalizzazione ai tempi del “burquini”) a proposito delle polemiche sugli indumenti da spiaggia di (alcune) donne musulmane, e sulla pretesa occidentale di normare e vietare la cosa, in nome della libertà femminile e dei “nostri valori”. Ricolfi consiglia giustamente di riflettere sulla propria storia: non c’è bisogno di risalire ai tempi di Spinoza o di San Paolo per trovare usi e costumi non troppo dissimili da quelli che oggi condanniamo con tanta sicurezza. La contraddizione delle certezze “illuministe” , divise tra tolleranza e relativismo da un lato, e pretese normative universali dall’altro, forse si possono affrontare meglio se si pensa al fatto che l’idea di libertà ai nostri giorni è profondamente cambiata rispetto all’epoca dei “lumi”, alla cui nascita certo contribuì il nostro Baruch.

Principalmente perché è venuta al mondo una libertà femminile che prima era sconosciuta. Una libertà benedetta, mi verrebbe da dire. Ha il favore di certi dei, o più probabilmente dee. E noi uomini dobbiamo ancora imparare a dirla bene. Non solo se siamo musulmani praticanti.