Quando nell’estate 1970 Gabriele Basilico, insieme a Giovanna Calvenzi, la compagna di tutta la sua vita, partì per l’Iran a bordo di una Fiat 124, non aveva ancora chiaro che il suo destino sarebbe stato quello della fotografia. Aveva 26 anni, era laureando in architettura in quegli anni leggendari e convulsi segnati dal carisma di Aldo Rossi. Poco dopo avrebbe aperto, senza troppe convinzioni, uno studio in via Brera, davanti al bar Giamaica, insieme ad altri due amici. Quel viaggio affascinante e anche un po’ temerario, comunque, Basilico lo affrontò ben attrezzato, con due apparecchi, tra cui una Hasselblad, e buoni obiettivi. Ma le fotografie, che lui stesso stampò al ritorno, solo ora sono state pubblicate in un volume curato Giovanna Calvenzi. È nato così Iran 1970, una piccola, accuratissima edizione, densa d’affetto (introduzione di Luca Doninelli, Humboldt edizioni, pp. 78, euro 18,00). Un’edizione che in un certo senso ci documenta e ci consegna l’alba di un grande fotografo.
«Arrivando dalla Turchia, attraverso un’alta catena montuosa, l’Iran ci si apre davanti quasi improvviso, un enorme paese di oltre un milione e mezzo di chilometri quadrati che si dilata gradualmente man mano che ci si avvicina ai grandi altipiani delle regioni centrali. Lunghe strade diritte intersecano spazi che per noi hanno dell’incredibile: una dimensione che modifica la nostra sensibilità, dandoci un senso di maggior dilatazione di spazi e atmosfere». Sono alcune delle brevi annotazioni che Basilico aveva trascritto sul suo taccuino e che sono state pubblicate nel volume. Si tratta di osservazioni che dicono molto del paesaggio che si era spalancato davanti al parabrezza della sua 124; ma soprattutto queste righe dicono tantissimo di lui, del Basilico fotografo. Basilico è un fotografo a cui il mondo veniva sempre incontro: è una questione di occhio e di predisposizione psicologica. Lui non partiva mai dall’idea di dover selezionare porzioni di mondo «buone» e adatte a finire nel suo obiettivo. Tutto poteva essere «buono» e funzionare per una fotografia. Dipendeva solo dalla serietà e dall’umiltà dello sguardo. O meglio, dalla coerenza e dalla completezza di pensiero con cui si metteva a fuoco lo sguardo. Per questo il viaggio in Iran, con la rivelazione di prospettive mai viste e neanche immaginate, deve aver rappresentato per lui una vera esperienza iniziatica. Il paesaggio ogni volta sembrava spalancarsi davanti all’obiettivo in tutta la sua compattezza architettonica: l’importante era trovare il punto giusto da cui guardare; era aspettare che le luci e le ombre fossero quelle congrue per dare il senso dei rapporti tra gli spazi e le forme.
Ci sono immagini stupende e già pienamente timbrate Basilico in Iran 1970: come quelle realizzate lungo le strade della Cappadocia (uno degli obiettivi del suo viaggio) o quelle scattate tra le rovine di Persepoli. Immagini in cui il lavoro di documentazione delle architetture già si presenta come un lavoro di carattere narrativo (non a caso Doninelli nel testo parla di «un romanzo segreto che c’era dentro di lui»). Basilico non travalica e non forza i tagli e le prospettive, ma rispettando le cose riesce sempre ad aprire un varco per immaginare e far immaginare la vita che era passata tra quelle pietre o tra quelle strutture naturali scavate dagli uomini. Sono immagini dal sapore iniziatico anche due foto scattate nei dintorni di Isfahan: due paesaggi puri, quasi vertiginosi, come quelli a cui ci hanno abituati i primi film di Abbas Kiarostami. Qui Basilico sembra apprendere un segreto che terrà poi sempre con sé: qualsiasi porzione di spazio contiene una dimensione di infinito. Nelle due fotografie di Isfahan questa dimensione è esplicita e palese. Ma a pensarci bene è la stessa che poi traspare in ogni scatto nei suoi tantissimi cantieri di lavoro dei decenni successivi. Anche l’immagine più neutra, familiare e calcolata, come possono essere i suoi celebri Ritratti di fabbriche, fa sempre lealmente i conti con un fattore non misurabile. Lo spazio che separa gli edifici tra di loro o quello che passa tra gli edifici e l’obiettivo non è mai uno spazio muto o neutro. In un certo senso è spazio che vibra della vita che, come scelta, Basilico non documentava mai con presenze umane, ma che comunque impregna gli edifici, i vuoti, e infine anche la fisicità delle immagini.
Se ne è avuta una riprova in queste settimane in occasione della bella retrospettiva curata da Walter Guadagnini e Giovanna Calvenzi (Ascolto il tuo cuore, città, Milano, Unicredit Pavillon, catalogo Skira; chiude oggi, 31 gennaio), in cui il percorso di Basilico è stato documentato attraverso un centinaio di immagini originali, tutte stampate in grandi dimensioni e incorniciate coerentemente con il listello nero come lui voleva. Nel Pavillon, la grande bolla di legno progettata da Michele De Lucchi, non c’era da guardare solo le foto; c’era anche da guardare al modo con cui il pubblico, straordinariamente folto per una mostra di questo tipo, guardava quelle foto. Le immagini di Basilico, sempre rigorose, sempre oltremodo rispettose di quelle porzioni di mondo confluite nel suo obbiettivo, infatti sono in grado di mettere in movimento non solo l’immaginario, ma anche la sensibilità, il vissuto delle persone.
Eppure Basilico non ha mai voluto «teatralizzare» i punti di vista. Con il suo banco ottico non cercava palcoscenici speciali, si posizionava sempre sui marciapiedi, ad altezza dell’occhio di una persona normale. Ricordo che diceva di non amare le vedute dall’alto, proprio nel momento in cui, con il lavoro fatto su Mosca, per la prima volta aveva fatto un’eccezione. In mostra in realtà lo abbiamo sorpreso esercitarsi in vedute dall’alto, per esempio a Montecarlo, a Napoli, a Bari. Sono sguardi rotanti, come a voler tirar dentro nell’obiettivo, con un movimento a spirale, tutta la città. Evidentemente nell’occhio di Basilico si erano impresse le immagini di Boccioni, altro grande artista innamorato delle città e della vita che custodiscono e sprigionano. Le viste dall’alto non sono quindi solo vedute più larghe, sono prospettive più esplicitamente e dichiaratamente innamorate: quasi che Basilico avesse provate a curiosare, mettendosi nel punto di vista di Dio…
Sono tutti motivi per cui più passa il tempo e più la fotografia di Basilico svela una sua forza coesiva; una intima ragione civile. Guardando le sue foto tutti siamo infatti portati «a ritrovare l’immutabile legame di amicizia con i luoghi», come aveva scritto nel 1997, in un testo che accompagnava il libro Nelle altre città. Per questo visitando la mostra milanese, come accadeva a Giacometti quando andava al Louvre, era interessante osservare lo sguardo delle persone. Basilico, sempre in quel testo, parlava di «una disposizione affettiva che guidava i miei spostamenti e la mia curiosità». Quella disposizione affettiva è evidentemente l’energia che tracima ancora dalle sue foto e che ci fa fare la pace con i luoghi, modificando, come era accaduto a lui davanti ai paesaggi iraniani, la nostra sensibilità.