Con l’intento di mostrare il ruolo centrale di Jean-Michel Basquiat nella sua generazione e la funzione della sua arte come ponte di collegamento tra le diverse culture, il Mudec di Milano ha scelto di presentare, fino al 26 febbraio, 140 lavori dell’artista: si tratta non solo di opere già conosciute, ma anche di esempi poco noti al pubblico o addirittura di inediti, e si distinguono fra grandi formati e disegni, fotografie, collaborazioni con l’amico Andy Warhol, a cui si vanno ad aggiungere alcuni ritratti di personaggi e artisti dipinti su piatti di ceramica.

La mostra, curata da Jeffrey Deitch, amico dell’artista e critico, e da Gianni Mercurio, e promossa dal Comune di Milano-Cultura e da 24 ORE Cultura (che ne è anche produttore), attraversa la breve carriera artistica di Basquiat cercando di ricostruire l’essenza della poetica di un giovane writer che dalla strada viene innalzato in pochi anni a star, entrando a far parte del jet set artistico, e dei suoi riti commerciali, che egli aveva sempre osteggiato. Le opere esposte, provenienti in gran parte dalla collezione dell’imprenditore israeliano Yosef Mugrabi, iniziata quando l’artista era ancora in vita, sono, come sempre quando si parla di Basquiat, di natura squisitamente autobiografica. Furono realizzate tra il 1980 e il 1987: dai graffiti firmati SAMO, che cominciano ad apparire nelle strade di Soho e del Lower East Side di New York, alle opere esposte a Modena nel 1981 (viaggio durante il quale Basquiat dipinge la monumentale tela intitolata The Field next to the other road, in cui ritrae l’incontro tra una figura umana scheletrica e una bestia), fino ai lavori eseguiti a New York prima nello studio di Prince Street, poi in Crosby Street e infine in Great Jones Street; la sesta e ultima sezione mostra i dipinti realizzati insieme all’amico Warhol, i disegni e le ceramiche.

L’accattivante allestimento prevede un duplice percorso: il visitatore può procedere secondo il senso cronologico dell’affermazione di Basquiat, ma anche affidarsi a una chiave di lettura geografica, seguendo l’artista nei luoghi topici della sua avventurapiù. La mostra su un personaggio come Basquiat, che tentò di raggiungere la notorietà lottando contro le discriminazioni razziali, ben si colloca all’interno dell’indirizzo etno-antropologico del museo: per quanto molto giovane, l’artista riesce infatti a includere, in primis nei suoi graffiti e successivamente nelle sue pitture, la rabbia scaturita dall’emarginazione sociale e dalle differenze razziali: richiami all’arte primitiva, totemica e tribale si intrecciano alla furia espressionista e vengono rielaborati all’interno della poetica da writer, in un impasto di colori densi e accesi (Three Delegates, 1982). Per riassumere l’esperienza artistica di Basquiat in questi anni, si può notare come l’artista sia passato, riservando sempre un’importanza speciale alla scrittura, da raffigurazioni di personaggi scheletrici e maschere, che rivelano la sua ossessione per la condizione mortale dell’uomo, a elementi della vita di strada, come automobili , palazzi o poliziotti. Non va mai dimenticato il forte interesse di Basquiat per l’identità nera o ispanica: sin dal 1981 egli si dedica a una serie di opere di denuncia sociale contro il razzismo. Subito dopo la denuncia si trasforma in riscoperta delle origini attraverso la celebrazione degli eroi della musica o dello sport che con le loro imprese hanno contribuito al riscatto dei black: da qui nasce non solo la serie dei Famous Negro, ma anche altri dipinti esposti in mostra, come Untitled (Yellow Tar and Feathers) del 1982, in cui risulta chiaro il riferimento al problema razziale. Inoltre, in alcune delle tele presentate, come in due Senza titolo del 1981, Basquiat dipinge una corona: questo segno, unito a una sorta di maschera tribale con la quale rappresenta i volti, diventa il simbolo della regalità, dell’eroismo e della lotta razziale, ed è tipico di alcune tele dipinte tra il 1982 e il 1985.

Tutte insieme le opere di Basquiat possono essere lette come un diario, che mostra in presa diretta quelle che erano le paure, ma anche le passioni dell’artista: vi ritroviamo la musica jazz, il fumetto (Job Analisis del 1983), l’energia urbana di New York, la Pop Art, l’espressionismo tedesco, i mass media, i riferimenti colti all’opera di grandi artisti come Leonardo da Vinci, Dubuffet, Twombly, Picasso e Matisse, ma anche citazioni tratte da letture bibliche, da manuali scientifici (Five Fish Species, 1983), di anatomia – Senza titolo (Hand Anatomy), 1982; Senza titolo (Bracco di ferro), 1983; Back of the neck, 1983 –, di archeologia e di storia dell’arte. Infine, le opere di Basquiat, alcune delle quali si caratterizzano anche per l’alternanza tra lo spazio vuoto e l’abbondanza di segno (come l’opera intitolata Embittered del 1986), possono essere definite polimateriche, dato l’utilizzo di colori acrilici, di pastelli e di collage sui supporti più vari (ne sono un esempio le opere Natchez del 1985, in cui l’artista utilizza il colore acrilico e incolla fotocopie e legno su compensato montato su porte, e Senza titolo del 1985, creata con pastello, guazzo e collage su carta).

La smania di successo del giovane artista nero viene presto assecondata da Andy Warhol che, nonostante le differenze espressive in senso generale, intravede nell’arte do Basquiat dei punti di contatto con la propria pittura. I due artisti si conoscono nel 1982 grazie al dealer e gallerista Bruno Bischofberger; da quel momento Basquiat frequenta assiduamente Warhol: in seguito all’esperienza a sei mani, che comprenderà anche il transavanguardista Clemente, Basquiat continua per tutto il 1985 a produrre insieme a Warhol i famosi Collaboration painting, fino a quando, nel settembre di quell’anno, il New York Times non lo definirà «la mascotte di Warhol», portandolo a interrompere ogni successiva collaborazione.

La mostra al Mudec ripropone tutta la storia, introducendo il visitatore all’interno di sale «scarabocchiate», in cui le figure sembrano intersecarsi alle parole e in cui emerge tutta la rabbia dell’artista: in un’intervista su «Interview» del 1983, alla domanda se nella sua arte ci fosse effettivamente rabbia Basquiat infatti risponde: «La rabbia è più o meno l’80 per cento»