Il 20 dicembre del 2014 a Roma una sorridente ministra della Difesa italiana Roberta Pinotti firmava con il Generale Sedki Sobhi una dichiarazione congiunta di cooperazione militare tra Italia ed Egitto. Sedki Sobhi è l’attuale ministro della difesa egiziano e nel marzo del 2014 aveva preso il posto di Al-Sisi (un altro generale) che nel frattempo si era candidato per la presidenza della Repubblica, facendosi eleggere due mesi dopo.

Alla dichiarazione congiunta avrebbe dovuto seguire un accordo vero e proprio, che non è mai arrivato. Ma, come dice il comunicato del nostro ministero della difesa, quella dichiarazione – firmata dopo colloqui «improntati alla massima cordialità» – avviava delle «concrete attività di cooperazione», quali l’addestramento delle forze armate egiziane e l’assistenza per i sistemi d’arma. Quali sono precisamente queste attività e in cosa consistono esattamente? Perché il governo non ce lo dice? Non è la prima, né sarà l’ultima volta che il nostro governo firma accordi con paesi i cui governi si macchiano di crimini, violazioni, diritti umani e guerre. Solo qualche settimane fa il parlamento ha approvato un accordo di cooperazione con la Somalia, nonostante sia in vigore un embargo (deciso dall’Onu) sulla vendita di armi a quel paese.

Nonostante i rapporti di Amnesty International e Human Rights Watch ci abbiano documentato anche in passato come il regime egiziano violi sistematicamente i diritti umani – l’anno scorso il nostro governo ha tranquillamente autorizzato il trasferimento di sistemi d’arma per ben 37 milioni di euro al governo del Cairo. Protagoniste imprese come la Beretta, la Oto Melara, la Selex, il gruppo Finmeccanica che hanno venduto al regime di Al-Sisi dai fucili e le pistole (decine di migliaia in due anni) a sistemi d’arma più complessi e raffinati. Sostanzialmente si viola la legge 185 sul commercio delle armi: per quella legge non si possono vendere armi a paesi in guerra, a dittature e a regimi che violano i diritti umani.

Nel frattempo Giulio Regeni è stato assassinato e le responsabilità del regime sono emerse con tale forza da costringere il governo italiano a richiamare l’ambasciatore per consultazioni. Invece la «concreta cooperazione militare» con l’Egitto continua, per la felicità dei produttori d’armi. Mentre in Egitto, ci ricorda Amnesty International, avvengono arresti e detenzioni arbitrarie, viene limitata la libertà di stampa e di espressione, vengono perseguitate le opposizioni e gli attivisti dei diritti umani, vengono discriminate le donne e le minoranze e viene garantita l’impunità ai soldati e ai poliziotti che si macchiano di crimini e violazioni dei diritti delle persone.

È per questo motivo che – oltre al sottoscritto – Roberto Saviano, Alice Rohrwacher, Stefano Benni, Andrea Segre e Valerio Mastandrea hanno promosso un appello per chiedere lo stop alla cooperazione militare con l’Egitto (per aderire: iosottoscrivo@gmail.com). L’appello chiede la «verità per Giulio Regeni» e la fine di ogni fornitura di armi e assistenza alle forze armate egiziane. In poche ore sono già migliaia i cittadini che hanno aderito all’appello.

Il richiamo dell’ambasciatore in Italia qualcuno può considerarlo un atto politico forte, ma sostanzialmente simbolico e senza effetti concreti. Ben più significativa sarebbe la decisione di bloccare la cooperazione militare – innanzitutto – con quel regime e non dare più l’autorizzazione alla vendita di armi a quel paese. Trasferire armi ad un governo che viola i diritti umani, che imprigiona gli oppositori, limita la libertà di stampa significa essere complici di un regime ed è un atto eticamente e politicamente inaccettabile.

E dopo le bugie, le reticenze e le omissioni degli apparati del regime di Al Sisi sul caso di Giulio Regeni sarebbe ovvio revocare gli effetti di quella «dichiarazione congiunta» di cooperazione militare. Speriamo che Roberta Pinotti se ne renda conto.