Pubblicato autonomamente nel 1765 sotto lo pseudonimo di un defunto abate Bazin, poi riproposto dall’autore come una sorta di introduzione all’Essai sur les moeurs et l’esprit des nations (già edito nel 1756 e nel 1761, e poi continuamente ritoccato), Filosofia della storia (ora tradotto, introdotto e annotato da Roberto Bordoli, non senza sviste, talvolta fuorvianti, e corredata di note un po’ troppo stringate, Mimesis, pp. 315, € 24,00) viene presentato con il titolo originario e nella prima versione.

Il testo è indirizzato a un destinatario anonimo, che «vorrebbe che la storia antica fosse stata scritta da filosofi, perché vuole leggerla da filosofo», il che significa «considerare alla luce del senso comune tutte le favole dell’antichità», giudicando «assurdo» tutto ciò che non rientra nella natura: così lo stesso Voltaire, nella Défense de mon oncle sintetizza il progetto della Filosofia della storia, un avviamento alla pratica del severo ma necessario vaglio critico cui vanno sottoposte le narrazioni che ci ha consegnato la tradizione. Narrazioni tanto contaminate da elementi mitico-religiosi che su tutto quanto è realmente avvenuto prima di Tucidide e Senofonte – scrive Voltaire nel Filosofo ignorante – regna una fitta oscurità.

Anche Hume, fra gli altri, pensava che solo «la prima pagina di Tucidide segni l’inizio della vera storia» ed è un orientamento diffuso in tutta la storiografia illuminista; ma le peculiarità del pensiero storico di Voltaire sono due: l’universalità della prospettiva assunta e l’interesse rivolto essenzialmente ai temi che compaiono nel titolo del suo capolavoro storico, appunto il Saggio sui costumi e sullo spirito delle nazioni. A proposito del quale nel 1745, nella prefazione pubblicata su un giornale a quella che si progettava allora di chiamare Storia dello spirito umano, è formulato un giudizio che vale una dichiarazione programmatica: «Leggendo le storie sembra che la terra sia stata fatto solo per alcuni sovrani… Gli storici, simili in ciò ai re, sacrificano il genere umano a un uomo solo».

Più tardi, Voltaire si sarebbe precipitato a soffocare lo scandalo, sconfessando come apocrifa la frase, pubblicata senza la sua autorizzazione, e sostituì la parola «re» con «alcuni tiranni»; ma la formula è troppo bella per essere stata inventata, e comunque la sostanza non cambia. Continuino pure gli storici, ribadisce la Filosofia della storia, a compilare vuote genealogie di sovrani o a raccontare battaglie: «io mi dedicherò ad altro».
Quanto all’universalità, la Filosofia reagisce alla prospettiva eurocentrica dominante sino ad allora, allargando la visione fino a contestualizzare la storia dell’umanità in quella dell’intero globo terrestre, cui è dedicato il capitolo introduttivo, per continuare poi con i selvaggi, le civiltà indiana, cinese, babilonese e così via (i greci arrivano solo al XXIV capitolo).

René Pomeau ha giustamente notato che il Saggio e i testi connessi, compresa la Filosofia della storia propongono un’idea della storia che si contrappone frontalmente al Discours sur l’histoire universelle – del 1681 – scritto dal vescovo Bossuet, teologo, grande oratore e scrittore possente, che aveva esposto in una efficace sintesi, destinata a un duraturo successo, la concezione cristiana e provvidenzialistica della storia. Aveva sì trattato anche la storia di diversi popoli antichi, ma da una parte tenendo ferma la vicenda del popolo ebraico com’è raccontata dalla Bibbia, dall’altra interpretando le traversìe degli altri popoli in funzione del popolo eletto: «come se tutto fosse stato fatto al mondo per la nazione ebrea» – ironizza Voltaire – e quindi per il cristianesimo, che ne costituirebbe il superamento e il compimento.
Rifiutare tale privilegio implica un pluralità di prospettive e quindi un relativismo che equipara la Bibbia alle altre mitologie antiche, respingendole tutte come prodotti della credulità umana non meno che dell’inganno dei potenti, che tentano sempre di imporsi come latori di un mandato soprannaturale: non diversamente dalle Storie di Erodoto, per esempio, le Sacre Scritture raccontano vicende confuse e contraddittorie, prodigi inverosimili e altre stranezze che offendono il senso comune e che violerebbero, se fossero vere, le leggi naturali.
Un secolo prima, al lumen naturale e alle leggi della natura come guide per interpretare le Sacre Scritture aveva fatto appello Spinoza nel Tractatus theologico-politicus (del 1670), un testo che Voltaire sicuramente conosceva e stimava sebbene capisse poco della filosofia dell’autore, che considerava un metafisico perso in speculazioni astruse, e per di più ateo, seppur virtuoso (secondo l’immagine divulgata da Bayle); ma è evidente l’enorme distanza che passa tra l’indagine pacata e rigorosa dell’ebreo e quella aggressiva e irriverente del francese, molto più vicino ai deisti e ai libertini della generazione immediatamente precedente, dai quali ereditava la dottrina dell’impostura sacerdotale. Per Voltaire, infatti, quasi tutti i popoli della terra (con la sola eccezione della Cina), all’origine sarebbero stati governati da teocrazie: ed è questa una delle principali poste in gioco nella violenta polemica anticonfessionale attestata anche nella Filofia della storia, il cui ultimo capitolo non a caso sentenzia, rompendo nettamente con la tradizione giudaico-cristiana: «qualsiasi legislatore che osò fingere che la divinità gli aveva dettato le sue leggi, era palesemente blasfemo e traditore: blasfemo perché calunniava gli dèi e traditore perché imponeva le proprie convinzioni alla sua patria».

Certo, la critica razionalista e dissacrante di Voltaire è anche disseminata di errori e imprecisioni, spesso dettati da un ardore iconoclasta incontrollato, tale da far dire a Edward Gibbon, che pure stimava il patriarca dei Lumi e condivideva molti dei suoi orientamenti, quanto anche lui, a modo suo, fosse un bigotto intollerante. Ma ciò che è più grave è come Voltaire non tenga alcun conto del significato spirituale che una narrazione così voluttuosamente sbeffeggiata ha avuto, tuttavia, per milioni di uomini, agli occhi dei quali essa significava la parola di Dio.

Pur avendo avuto il grande merito di proporre una valida alternativa sia all’allegorismo sia all’interpretazione razionalistica del mito, uno studioso come Vico ha per esempio aperto la Scienza nuova con una cronologia in cui calcola l’età del mondo sulle generazioni bibliche, fissandola, come Bossuet, in seimila anni, e stabilendo con la massima serietà la data del diluvio universale nell’anno 1656 dalla creazione.

Del resto, ancora oggi, pare che un vice-ministro israeliano abbia dichiarato che il recente terremoto in Italia centrale è una punizione divina per l’astensione italiana su una risoluzione filo-palestinese all’Unesco: di fronte a episodi come questo, c’è da augurarsi che i nipotini di Voltaire continuino a diffondere un po’ di quella «divina arroganza» e «immodesta consapevolezza dei propri meriti» che persino uno dei fondatori dell’ermeneutica moderna, Dilthey, ha riconosciuto al patriarca dei Lumi.