Nel luglio del 1972, per celebrare l’ottantesimo anniversario della nascita di Walter Benjamin, Jürgen Habermas tenne una conferenza all’Università di Francoforte in apertura della quale decretò che l’attualità del filosofo dipendeva molto banalmente dal fatto che ci fosse «guerra su come interpretarlo». Da allora la situazione non è cambiata di molto, anzi, la guerra infuria più forte e violenta che mai, non solo al centro dell’impero, ossia in discipline come la teoria sociale e la filosofia politica, ma anche nelle sue periferie, ad esempio, in quelle della letteratura comparata. Esplorando questo territorio scopriamo la permanenza e la vitalità del conflitto interpretativo scatenato attorno al pensiero di Benjamin nel recentissimo lavoro di Elena Fabietti, Immagini figurali. Uno studio sulla poesia di Baudelaire e Rilke (Nerosubianco, pp. 149, euro 15).

L’autrice si era già segnalata all’attenzione dei benjaminiani italiani per aver tradotto nel 2008 il carteggio tra il filosofo e il grande filologo Erich Auerbach. Ed è proprio da quest’ultimo che preleva e trasforma il concetto che è alla base del suo libro, quello di figura. Dati i precedenti, ci si sarebbe aspettati che la Fabietti facesse cooperare ermeneuticamente Benjamin e Auerbach, invece, in modo del tutto inatteso, li oppone, li fa scontrare su di una posta in gioco molto importante ai fini della comprensione della modernità: l’interpretazione di Baudelaire. Mentre Benjamin lo vedeva poeta dell’allegoria, la Fabietti, alleandosi con Auerbach, ne fa il lirico dell’immagine figurale.

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Prima di chiarire questo conflitto tra allegoria e figura, che solo in apparenza sembra essere una tignosa e specialistica questione di figure retoriche del linguaggio poetico, è giusto dire che l’autrice si imbatte in esso solo in seconda battuta. Infatti, il libro nasce innanzitutto come uno studio comparato tra la poesia di Rilke e quella di Baudelaire, o meglio, di come la poesia del francese si sia inscritta nella «biografia poetica» del tedesco. Quindi, Immagini figurali è specialmente, stando alle intenzioni dell’autrice, un’indagine che adotta il punto di vista di Rilke su Baudelaire, questo significa privilegiare «i problemi della visione e dello sguardo» dal momento che per l’autore delle Elegie duinesi il rapporto con il poeta dei Fiori del male si risolveva sul piano dell’immagine: lì dove quest’ultimo puntava dritto al cuore visibile della realtà, il primo, in antitesi, tendeva a superarlo per dirigersi direttamente al suo «lato invisibile» per liberarsi «dalla prigionia delle immagini». Che sia elemento da valorizzare o datità da superare, l’immagine, in entrambi i poeti, rimane comunque centrale: immagine che, come recita il titolo del libro, se non è più allegorica in Baudelaire, non è più nemmeno simbolica in Rilke, ma per tutti figurale cioè in grado di «connettere, in una temporalità della dilatazione e della prefigurazione, immagini distanti e remote». Dal superamento dell’allegoria e del simbolo tramite le risorse concettuali della figura, la Fabietti definisce, da ultimo, il senso generale, e ambizioso, della sua ricerca: «allargare il campo dell’interpretazione dell’immagine poetica nella poesia moderna».

Sebbene il libro si fondi sulla relazione tra Rilke e Baudelaire, l’autrice tende a specificare che il capitolo sul poeta francese è stato elaborato «in relativa autonomia». Quindi, autorizzati a leggerlo a parte da tutto il resto, possiamo ritornare sul conflitto interpretativo suscitato dalla visione allegorica di Baudelaire avanzata da Benjamin. La Fabietti è molto chiara, coraggiosa, ritorna di continuo sul punto: sarà pur vero che la poesia baudelairiana come vuole Benjamin è popolata da allegorie, ciò non vieta di vedere in esse un arresto, un limite, una frontiera, un compimento dell’immaginazione poetica, un «sepolcro dell’immagine» e non, piuttosto, come accade con la figurazione, la sua intrinseca ritmicità e fluidità, il suo scorrere e il suo movimento.

Non si tratta ora di riandare alla complessa definizione dell’allegoria data da Benjamin per opporla ancora una volta conflittualmente alla visione che ne ha la Fabietti, ma di ricordare all’autrice le condizioni storiche in cui essa – come del resto la figura di Auerbach – fu pensata dal filosofo tedesco: la persecuzione ebraica perpetrata dal fascismo europeo. Agli occhi di Benjamin il carattere progressista dell’allegoria stava nel fatto di opporsi alle forze regressive del mito attivate dall’ideologia fascista, non da ultime quelle legate alla razza. Il Baudelaire allegorico benjaminiano, al pari della filologia di Auerbach, non si può ridurre allo specialismo disciplinare, rappresenta, piuttosto, l’uso politico di una disciplina letteraria.