Zygmunt Bauman è un sociologo esperto, ma non conosce Pasolini, e non conosce bene Gramsci – di conseguenza non riesce a spiegare questa crisi che stiamo vivendo, nonostante ci scriva sopra un libro dopo l’altro.

L’ultimo l’ha scritto con Carlo Bordoni sociologo pure lui, s’intitola Stato di crisi (Einaudi 2015), e non solo non spiega la crisi intera, ma nemmeno la crisi dello Stato, sulla quale è incentrato – sebbene sia pieno di descrizioni dei fenomeni che la caratterizzano.

Ma nella scienza non bastano i come, le fotografie, servono i perché, servono i concetti. Lo Stato “non ha i mezzi” per affrontare la crisi. Giusto, ma perché? “Seriamente svuotati di potere e sempre più indeboliti, i governi degli Stati sono costretti a cedere una dopo l’altra le funzioni un tempo considerate monopolio naturale e inalienabile degli organi politici statali”. Vero, ma perché?

Il come, nel caso di Bauman, è costantemente riferito alla metafora che l’ha reso celebre: la modernità liquida. Siamo passati dallo stato solido (modernità) allo stato liquido (postmodernità). Ma dove stiamo andando, dice Bauman, non si sa: “Nei nostri tempi si accumulano prove su prove che i vecchi, familiari e comprovati modi di fare le cose non funzionano più, mentre di nuovi che li possano sostituire non se ne vedono”. Non si sa e non si può sapere: “L’inizio o la fine di un’era non sono conoscibili da chi vi si trova immerso.”

Ma perché si è passati dallo “stato solido” allo “stato liquido” nell’economia, nella politica, nella morale, nella cultura? Il perché è per Bauman quello che l’uva è per la volpe (che non riesce a raggiungerla): nondum matura est, nolo acerbam sumere – non è matura, non voglio mangiarla acerba.

In tutto il libro sono citati da Bauman e Bordoni centinaia di autori che si arrovellano sullo Stato e sulla crisi. Pasolini non c’è. Perché dovrebbe esserci? Perché (come ho mostrato in questi anni in questa rubrica) Pasolini, negli Scritti corsari e nelle Lettere luterane degli anni Settanta del Novecento, ha riscoperto la dimensione epocale di questa crisi, che chiamava “fine del mondo”, e individuato l’insorgere di nuove forme di fascismo.

E perché dovrebbe esserci e in grande stile Gramsci – che invece fa solo una comparsata con la citazione del termine “interregno”? Perché Gramsci, nei Quaderni del carcere, ha scoperto per primo, negli anni Trenta del Novecento, la dimensione epocale di questa crisi, che chiamava “crisi organica”, ed ha criticato radicalmente i tre primi tentativi regionali di risposta ad essa: il comunismo, il fascismo, l’americanismo.

Il concetto di crisi di civiltà è necessario per spiegare il perché di questa crisi. Ed è necessario per progettare il suo effettivo superamento, che è possibile, anzi è in corso: dalle ceneri della civiltà moderna sta nascendo infatti una nuova e superiore civiltà, caratterizzata dalla diffusione di un ‘tipo umano’ che si può definire “creativo, autonomo, solidale”.

Ma questo non lo sanno i politici e gli intellettuali e gli scienziati esperti di crisi, che “non sanno quando stanno andando” (Corrado Guzzanti) e, vedi Bauman, teorizzano questa debolezza conoscitiva come propriamente contemporanea. Mi ricorda quel francese “che nel suo biglietto da visita aveva fatto stampare «contemporaneo»”. (Quaderno 11)

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