Sole implacabile su Mulhouse, e temperature eccezionalmente alte anche dopo il tramonto, quando qui – in Alsazia, a qualche decina di chilometri da Basilea – a fine agosto normalmente l’estate comincia a corrompersi. Bel tempo non solo meteorologico per la rassegna – una presenza di vecchia data nel panorama dei festival del jazz in Francia – che una volta era Jazz à Mulhouse, mentre da qualche anno si chiama Météo Mulhouse Music Festival, e che è tornata ad essere un affidabile barometro sulla situazione del jazz più avanzato e della musica improvvisata.

Che al Noumatrouff – spazio per concerti ricavato da una struttura di fabbrica in cemento, un po’ stile centro sociale – alcune centinaia di persone si accalchino per entrare ad ascoltare dell’improvvisazione in una sala piena come un uovo, con un caldo da sauna, seduti su spartane sedie di plastica, dimostra che la free music continua ad avere un pubblico che la considera meritevole di sottoporsi a qualche disagio, e che il festival di Mulhouse gode di buona salute. Alcuni anni fa, dopo l’avvicendamento fra Paul Kanitzer, storico animatore della manifestazione e un giovane direttore, Mulhouse aveva rischiato di andare fuori strada: poi altro avvicendamento, con un altro giovane, e il festival mostra di essere tornato in carreggiata. Dominano i capelli bianchi della vecchia guardia di appassionati e addetti ai lavori, ma non mancano generazioni con meno primavere, e finalmente anche qualche presenza che testimonia di una città sempre più multietnica. E quest’anno Mulhouse, con un cartellone più ampio (cinque giorni) e convincente, ha sottratto anche qualche spettatore all’austriaco Jazz festival di Saalfelden, che pure si è svolto la settimana scorsa. Per molti, decisiva nella scelta la presenza del trio di Roscoe Mitchell con gli inglesi John Edwards al contrabbasso e Mark Sanders alla batteria: un gigante di intransigenza e non convenzionalità il sassofonista chicagoano, non meno avvincenti, indomiti, i partner.

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Chicago ed Europa anche con Sonic Communion. Se il termine communion può immediatamente evocare un capolavoro come Complete Communion di Don Cherry, la musica e il tipo di intesa sono assai diversi, ma in ogni caso c’è una corroborante complicità in Sonic Communion, gruppo nato nell’ambito dell’iniziativa di un ponte (The Bridge) fra jazz di ricerca francese e chicagoano: c’è il lirismo essenziale, la sottigliezza degli interventi della tromba sordinata di Jean-Luc Cappozzo, c’è con sopranino, didgeridoo, flauto traverso, flautini, l’esperienza di un improvvisatore rotto ad ogni situazione come Douglas Ewart, un’icona della «scuola» di Chicago, c’è il drumming felpato di Michael Zerang, e a incorniciare, col pizzicato o l’archetto, i contrabbassi di Bernard Santacruz e di Joëlle Leandre; nella musica c’è spazio, nessuna invadenza e protagonismo, molto tatto, molta moderazione anche nel volume, in un clima raccolto, riflessivo, di ascolto reciproco: poi nel finale al virtuosismo strumentale dell’improvvisatrice, si aggiunge anche il consumato talento da teatro dell’assurdo di Leandre.

Il duo dello spagnolo Agustì Fenandez, pianoforte, e del norvegese Kjell Nordeson, percussioni, è una di quelle proposte che in un festival come questo, col pubblico competente che attira, trova il contesto ideale: duo intenso, non prolisso, di cui bisogna saper apprezzare il minuto, calibrato dialogo informale, con Fernandez spesso impegnato sulle corde dello strumento, e che offre anche delicati, rarefatti momenti di bella musicalità, come quando Nordeson dalla batteria si sposta al vibrafono, suonato con estremo tatto. Fernandez e Nordeson hanno figurato anche nel Nu Ensemble del sax baritono svedese Mats Gustafsson, in un progetto dedicato a Little Richard. Musicista brillante e ambizioso, Gustafsson qui pecca per un alternarsi piuttosto meccanico e insistito di piccole cose – molto ben fatte, per carità – e di esplosioni free, in una esecuzione che fa spesso pensare a musica classico-contemporanea, un po’ troppo rigida e studiata; un po’ sprecata anche l’ampia e qualificata compagine, della quale, a parte l’eccellente vocalist Mariam Wallentin, il polistrumentista neroamericano Joe McPhee è stato pressoché l’unico ad avere uno spazio solistico.

Fra i momenti più interessanti del festival la lettura che il gruppo europeo Zeitkratzer ha proposto di Metal Machine Music di Lou Reed prendendo molto sul serio con una formazione di impronta cameristico-contemporanea (archi, fiati, piano, percussioni) i feedback e gli effetti chitarristici del controverso album in una interpretazione attenta e consistente; da riascoltare anche la versione che Zeitkratzer ha consegnato ad un cd.