Nel luglio del 1944 i bombardamenti che colpirono Pisa danneggiarono sensibilmente il Camposanto monumentale in Piazza dei Miracoli. I molti metri di affreschi che decoravano il monumento corsero il rischio di scomparire per sempre: fu necessario strapparli dalla loro sede originaria – un procedimento, quello dello strappo, rischioso e traumatico per la pellicola pittorica. Per fortuna c’era stata una campagna fotografica degli Alinari, che consentiva – e consente – di leggere le scene prima del disastro subito. Tra quegli affreschi si trova anche il ciclo, celeberrimo, che Buonamico Buffalmacco dipinse intorno al 1336. Di tutte le scene dipinte dall’artista fiorentino, oggi la più nota è certo il cosiddetto ‘Trionfo della morte’, anche perché per molto tempo gli storici dell’arte hanno indicato con un nome convenzionale l’autore di quelle opere, appunto il «Maestro del Trionfo della morte». È dal 1974, da quando cioè Luciano Bellosi pubblicò per Einaudi Buffalmacco e il Trionfo della morte che l’anonimato del pittore è riconfluito nella personalità storica dell’artista fiorentino di cui raccontavano Giovanni Boccaccio e Francesco Sacchetti, Lorenzo Ghiberti e Giorgio Vasari.
Postfazione di Bartalini
Il volume di Bellosi, edito una seconda volta nel 2003, viene adesso riproposto da Abscondita (pp. 301, 218 ill., euro 29,00) accompagnato da una postfazione di Roberto Bartalini. È nelle pagine di quel volume che, per la prima volta, veniva argomentata con un’analisi lucida e serrata l’identificazione dell’anonimo pittore con Buffalmacco. Il percorso dell’artista fiorentino, «pittore girovago» come titola uno dei paragrafi del volume, veniva ricostruito da Bellosi utilizzando gli strumenti della connoisseurship, cioè un’attenta, capillare analisi dello stile, che consentiva di legare finalmente le opere di Pisa a un nome concreto. Fino al 1974, le posizioni della critica si erano assestate su due opposti filoni: da un lato c’era chi, come l’americano Millard Meiss, attribuiva gli affreschi al pittore pisano Francesco Traini; dall’altro Roberto Longhi proponeva di vedere gli affreschi come l’opera di un artista bolognese.
La posizione di Longhi, che Bellosi con il suo libro di fatto aggiornava e correggeva, era tuttavia, come del resto sottolineato da Bellosi stesso, frutto di una grande libertà mentale nei confronti del ciclo pisano. Lo stesso tipo di libertà mentale, di capacità di affrontare problemi complessi e sui quali si erano in qualche modo sedimentate le opinioni di una tradizione critica anche illustre, era uno dei tratti più caratteristici di come Bellosi affrontava le sue ricerche.
Certo, la posizione di Longhi – di cui Bellosi, non si dimentichi, fu allievo a Firenze – aveva avuto un grande peso. Come riportato da Bartalini in postfazione, quando Bellosi si trovò a tenere una lezione alla Scuola Normale intorno alla metà degli anni ottanta apriva ricordando: «avrei giurato – come sul Vangelo – che gli affreschi di Camposanto erano bolognesi». Come poi sarebbe accaduto con l’altro, importante libro, La pecora di Giotto, nel Buffalmacco si incontra per la prima volta un ampio utilizzo, come scrive Bartalini, dell’«analisi delle fogge del vestiario», che fa parte della «messa a punto di una metodologia ‘archeologica’ di controllo della datazione delle opere». E i dati ricavati attraverso l’analisi della moda Bellosi li fece reagire tanto con la letteratura artistica quanto con le testimonianze letterarie.
Erano molte le novità dirompenti di questo libro: dalla piena affermazione dell’attendibilità del Ghiberti quale fonte per l’arte del Trecento alla revisione della cronologia – stabilita nelle sue linee portanti ancora una volta da Longhi – dell’arte bolognese, fino alla ricostruzione del panorama artistico fiorentino degli anni 1310-1320 come non ancora dominato dalle novità di Giotto e restituito in una fisionomia più complessa e differenziata, dove artisti come Lippo di Benivieni, il ‘Maestro di Figline’ e lo stesso Buffalmacco avevano un posto di primo piano.
La ripubblicazione di questo cruciale volume cade proprio quando si stanno ultimando i restauri del ciclo del pittore fiorentino. Come si diceva, i danni provocati nel ’44 costrinsero a vari «trasporti» degli affreschi. Iniziava così una lunga e dolorosa vicenda che, sostanzialmente senza soluzione di continuità, si è susseguita fino ai restauri attuali. Dal 1980 in poi è apparsa sempre più urgente la necessità di rimuovere gli affreschi dai supporti in eternit sui quali erano stati incollati. Inoltre, la presenza di queste colle, stava lentamente ma inesorabilmente danneggiando lo strato pittorico superficiale.
ll distacco dall’eternit
Dopo un decennio di studi e riflessioni, venne incaricata una commissione per la direzione dei lavori che avrebbe dovuto sovrintendere alle diverse e delicate fasi operative – dodici in tutto – per il completo restauro dell’opera (attualmente la direzione è composta dal Antonio Paolucci, Antonino Caleca e Severina Russo). I restauri sono oggi affidati alle cure di Carlo Giantomassi, alla moglie Donatella Zari e a Gianluigi Colalucci, cioè alcuni dei migliori esperti del settore. Da quando coordinano il lavoro di restauro (2009), hanno introdotto nuove tecniche che permettono di intervenire in modo meno traumatico per distaccare la pellicola pittorica dall’eternit. In particolare, sono stati adottati nuovi supporti in vetro resina e alluminio che, grazie a un particolare sistema di monitoraggio della temperatura, permetteranno di scongiurare il formarsi di condensa sulle superfici pittoriche, fenomeno riscontrato a partire dal 2010 quando gli affreschi erano stati ricollocati in Camposanto. Inoltre, grazie ad un protocollo messo in atto con Giancarlo Ranalli dell’Università di Campobasso, è stato possibile eliminare i residui di colle organiche che stavano sulle superfici degli affreschi utilizzando dei batteri che, letteralmente, li divorano, ma lasciano intatto il colore. Queste operazioni, affiancate da una pulitura dello strato pittorico, stanno restituendo agli affreschi una maggiore leggibilità, riportandoli a un nuovo aspetto cromatico.
La ricollocazione di tutto il ciclo di Buffalmacco in Camposanto è prevista per il 2018. L’Inferno è stato il primo segmento del ciclo a essere ricollocato; e a breve sarà affiancato dal Giudizio Finale, attualmente ancora nei laboratori di restauro dell’Opera del Duomo di Pisa. Una volta che le scene affrescate avranno riguadagnato almeno un poco la brillantezza dei colori, si potrà tornare a guardarle tenendo a mente alcuni dei passaggi del libro di Bellosi, di quel testo, cioè, che per la prima volta mise accanto il nome di Buffalmacco e il Trionfo della morte, sancendo la definitiva identificazione dell’anonimo maestro con il pittore fiorentino.