Benvenuti a Bobbio. Si presenta esplicitamente il luogo dell’anima di Marco Bellocchio, il paese degli antenati, sangue del suo sangue, magnifica chiamata a raccolta di buona parte degli interpreti dei suoi film, dei suoi familiari e degli stessi momenti chiave della sua opera, in una perfetta costruzione che affonda le sue fondamenta nella storia. Una scampanellata è l’incipit del film, come all’inizio della messa, anche se sappiamo che la cerimonia sarà laica. Sangue del mio sangue (da oggi anche nelle sale) è costruito su un doppio percorso: il primo sono le infinite soluzioni di alta messa in scena del film. Il protagonista Pier Giorgio Bellocchio, il figlio del regista, suo alter ego, interpreta a sua volta i gemelli Mai, nelle vesti di due figure emblematiche del secolo della Controriforma, il prete e il soldato (e in una memorabile scena uno ha l’impressione di scorgere il secondo dall’altra parte del fiume e si potranno vedere insieme), lo sdoppiamento geniale di Alba Rohrwacher con Federica Fracassi, pallide come lumi di candela, ad evocare le presenze femminili pie e nubili delle famiglie.

Le suore contrapposte alle streghe, le rose bianche al sangue. E infine il passato e il presente, uno sdoppiamento del film senza soluzione di continuità perché in fondo pochi secoli sono passati e il retaggio resta ancora a mostrare con evidenza caratteristiche irrecuperabili dell’uomo nella placida indifferenza dei luoghi. Il potere maschile sotto forma di tribunali inquisitori si trasformerà in seguito in reti di potere economico più dichiarate, riemerse dalle ceneri della storia, dalle tenebre, per apparire infine come personaggi sotto forma di vampiri.
Uno di quei luoghi che nei paesi italiani passano inosservati perché incorporati al paesaggio, prigioni abbandonate all’interno di un convento, è scoperto dal regista nel corso di una ricerca di location per la realizzazione di uno dei cortometraggi che da venti anni si fanno nella scuola di cinema estiva di Bobbio.                                                                                  

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Di quelle prigioni fa il luogo di controllo sul paese, di persecuzioni e violenze perpetrate dai tribunali ecclesiastici in nome della religione, un mistero per i contemporanei, non fosse che non si tratta di episodi relegati al passato, oggi li abbiamo visti riemergere in altre parti del mondo e nel nome di altre religioni con lo stesso marchio del potere assoluto.
Come Bellocchio aveva espresso i conflitti degli stati europei, le complicate alleanze che emergono anche nel presente nel Principe di Homburg, così in Sangue del mio sangue la sua abilità eccelle nel fare diventare cinema i complessi risvolti della storia: sono stupefacenti, scabri ed essenziali. Il convento, il fiume diventano leggendari, in pochi tocchi concreti indica le presenze simbolo dell’epoca che sono il bagliore delle armi, il ritmo incessante delle preghiere, le penitenze. Federico Mai, il guerriero è tornato a Bobbio per togliere al gemello l’onta di essere stato sepolto in terra sconsacrata dopo essersi suicidato perché da confessore è diventato amante di suor Benedetta (Lidiya Lieberman) considerata per averlo tentato una strega. Benedetta affronta le torture che devono provare se abbia stabilito un patto con Satana, è gettata nel fiume in catene e non affoga, marchiata col fuoco, è infine murata viva come lo fu la monaca di Monza. La vittima rinchiusa per anni che infine è liberata rimanda al cruciale Buongiorno notte, anche nella magnifica soluzione scenica: ostaggio che riemerge intatto affermando tutta la sua forza, un’affermazione di libertà. A questo si aggiunge l’evocazione di tutto lo stuolo di presenze stregonesche nei suoi film a cominciare dall’enigmatico Diavolo in corpo all’esplicito La visione del sabba.

Federico Mai è lo stesso pubblico che guarda le torture, complice come sarebbe stato all’epoca, accorso allo spettacolo in attesa del segno divino o diabolico. Possiede solo il coraggio che gli dà appartenere a una autorevole famiglia, per il resto si trova di fronte a situazioni troppo complesse per lui. Pier Giorgio Bellocchio che interpreta il soldato che indossa poi la veste sacerdotale e infine diventa un moderno intrallazzatore ministeriale dice che sono tutti personaggi accomunati da un’irrequietezza, dal dover trovare un posto nella vita senza riuscirci, ogni gesto non è mai portato a termine, il pugnale non riesce a colpire, la passione si raggela, è incapace di trattare le mazzette. Una muta disperazione lo contraddistingue.

Irrompono infatti a un certo punto i tempi presenti così deteriorati, a Bobbio è rinchiuso un mondo intero: il convento è ambito da un russo (Ivan Franek) che ne vuole fare un resort di lusso (ce ne sono di simili in Portogallo altra terra papalina), ma il custode è reticente a farlo entrare, il convento è ancora abitato dal Conte (Roberto Herlitzka) che si muove preferibilmente di notte al riparo della riproduzione dell’Isola dei morti sopra la testata del letto. Non è tanto fragile quanto sembra, capace com’è di tenere a bada affaristi, assessori e compratori, sodale del gruppo dei pallidi notabili del paese (tra cui non poteva mancare un altro celebre nome della compagnia Bellocchio, Toni Bertorelli indimenticabile in L’ora di religione).

Il regista compone un vivido quadro sociale a dispetto del gruppo cadaverico che sembra avere in mano il potere, con l’inaspettata irruzione dell’unico che sembra ragionare lucidamente, il matto del paese (Filippo Timi), figura che potrebbe essere uscita direttamente da una commedia anni ’70 o da Vincere, con giacca variopinta in alternativa all’orbace. E Bellocchio che di matti da legare se ne intende, non lo utilizza come figura salvifica, ma come presenza che fa risaltare gli intrighi del mondo contemporaneo, i nani sulle spalle dei giganti. «Il dominio della chiesa cattolica nel ‘600, dice Bellocchio, si conclude con il dominio democristiano che prometteva benessere e protezione, ma questa protezione succhiava il sangue». Con tutta la feroce grazia di cui è capace posiziona trucidi, sbirri, affaristi, candide fanciulle. Nulla è cambiato, basta muoversi al caffé del corso, generazione dopo generazione il potere è sopravvissuto e così anche la giovinezza che si rinnova ad ogni generazione. Forse sarà più forte di ogni tradizione, ai giovani è affidato il compito di farla finita con i vampiri.