Il cinque di piazza Vittorio Veneto è un angolo di Torino dove la storia, quella piccola, si nasconde, felice che a conoscerla sia soltanto chi se la va a cercare. Il cinque di piazza Vittorio Veneto è un angolo sotto i portici, dove due luoghi, l’uno accanto all’altro, se potessero parlare metterebbero in fila un secolo e più di splendori, decadenza, tentativi maldestri di rinascita, mediocrità a lungo padrona. Il cinque di piazza Vittorio è un caffè e un cinema accomunati da un destino tutto sommato benevolo e da un rito iniziato nel 1913, quando aprì i battenti il Cinema Impero e l’entrata o l’uscita dalla sala passavano per i tavolini del Caffè Elena, inaugurato nel 1889. Dieci anni prima, tra boiserie e arredi Liberty, Giuseppe Carpano, fondatore dell’omonima ditta di liquori e padrone dell’Elena, aveva messo a punto la ricetta del vermouth che lo avrebbe reso celebre nel mondo. La scritta ‘Vermouth Carpano’ sulla lunetta in vetro dell’ingresso lo rammenta. Qui prese appunti e inseguì pensieri Cesare Pavese; discussero di politica e decisero cortei i ragazzi del ’68, che ancora oggi ricordano i due vecchietti dietro il bancone e il telefono a gettoni con la scritta ‘guasto’ anche se non era vero. Quando i vecchietti lasciarono, ogni nuovo gestore, salvo rare eccezioni, accrebbe la sciatteria e il senso di abbandono. Ma, a conferma del destino benevolo sopra citato, tre anni fa i nuovi timonieri Antonella e Matias hanno ricondotto l’Elena sulla giusta rotta.
INIZIO SECOLO
Quale film abbia salutato l’apertura dell’Impero, foyer con pavimento veneziano e lampadari in cristallo, è notizia smarrita dagli archivi. Immaginiamo allora che, in sintonia con il nome, la scelta sia caduta su In hoc signo vinces di Nino Oxilia, regista torinese. I centodieci minuti di durata e i tremila metri di pellicola ne fecero la più lunga pellicola muta italiana fino all’avvento di Cabiria, 1914, due ore e mezza e tremilacinquecento metri. Con il 1942, piazza Vittorio Emanuele I diventa piazza Vittorio Veneto, e tale si ribattezza l’Impero fino al 1989, lento cammino dalla seconda e terza visione alle luci rosse. Alba degli anni ’90, cambio di insegna, Empire: faccia moderna, cartellone anonimo con sporadici guizzi, declino inarrestabile e chiusura. Cent’anni dopo l’Impero, davanti alla porta sbarrata dell’Empire, prende a fermarsi ogni giorno o quasi Stefano Jacono. Si ferma, guarda, sogna. Lui, classe 1976, nel mondo cinema ci viaggia dal 2006, ma ha cominciato a esplorarlo ai tempi dell’università, filosofia, un amore senza riserve per Carmelo Bene. Dentro il cinema ci viaggia, però fuori da ambizioni di attore, sceneggiatore, regista. Vorrebbe far conoscere e circolare quello buono, sacrificato dentro i confini della ‘nicchia’.
AL FESTIVAL DI CANNES
La sua avventura, Stefano te la racconta seduto, guarda caso, su una poltroncina rossa dell’Elena, in mezzo ai giovani dello spritz e signore sabaude che cinguettano intorno a un tè. «Finita l’università, una sola cosa mi era chiara: volevo alzarmi la mattina sapendo che esisteva qualcosa in grado di farmi correre, divertire, magari mettendo in conto un po’ di sofferenza. Quel qualcosa era il cinema, di cui, sotto l’aspetto industriale e della distribuzione, nulla sapevo». Jacono, valigia in pugno e casa di un amico in prestito a Mentone, Francia, parte nel 2006 verso il Festival di Cannes. Qui curiosa, parla con gli addetti ai lavori, domanda, ascolta. È un cane sciolto, senza accrediti e crediti. Un anno dopo, il primo della Festa del Cinema di Roma, il suo accredito si chiama Movies Inspired, distribuzione che ha appena messo su «Presi appuntamenti con i venditori esteri e imparai a decifrare i listini, fondamentali per capire quanto mi sarebbe costato portare in Italia gli autori che avevo in testa, i nuovi registi soprattutto. A distanza di nove anni non posso che essere felice se nove autori da me scelti allora sono arrivati in concorso all’ultimo Festival di Cannes. Ho portato per primo da noi Jeff Nichols e Andrea Arnold, di Nicolas Winding Refn ho distribuito la trilogia di Pusher e Bronson. I loro lavori erano casi unici, irripetibili. Ma assenti dal nostro mercato. Forse proprio questo vuoto convinse i venditori ad affidarsi a un ragazzo che aveva appena fondato una società e non poteva vantare grandi esperienze».
MOVIES INSPIRED
Adesso, però, i film targati Movies Inspired devono girare per l’Italia. La piazza torinese, parola di Jacono, si rivela subito durissima. Fra i tanti contatti ci sono gli esercenti dell’Empire, che accettano di prendere in esclusiva Seraphine di Martin Prevost, Bronson, My Son My Son What Have Ye Done di Werner Herzog e altri titoli. Chiuderanno da lì a poco. Di fronte alla saracinesca abbassata, qualche mese più tardi, Stefano inizia a fermarsi e a sognare. Quale posto migliore dell’Empire potrebbero trovare i suoi film? «A Milano, Bologna, Roma, uscivano Blue Valentine di Derek Cianfrance, Holy Motors di Leos Carax con Denis Lavant, Blancanieve di Pablo Berger, e a Torino niente. Guardavo la sarcinesca e mi veniva da pensare a un altro glorioso cinema, in via Po, adesso è un locale, che chiamavamo «il pullman» per via dei pochissimi posti e che aveva la cabina più antica della città. Il cinema stava passando dal proiettore in trentacinque millimetri al digitale, garantendo così una circolazione più agile dei film. Decisi che se volevo prendere in gestione una sala era il momento giusto». L’amore per l’Empire scatta immediato, nonostante il disarmo totale.
L’ANTICO SPLENDORE
Salvo le poltrone, tutto è stato portato via, i cavi escono dalle pareti, alcune pedane nascondono il pavimento d’epoca che tornerà alla luce durante i restauri, muffa e sporcizia regnano ovunque. Jacono cerca i finanziamenti per il proiettore digitale, poi si mette a indagare sul passato dell’Impero, perché vuole che torni ad avere la faccia di allora. Gli cambia il nome per cancellare ogni legame con le gestioni precedenti. «’Classico’ identificava un cinema senza tempo, al di fuori delle mode e dell’ovvio».
Smuovere Torino dalle sue abitudini, si sa, non è impresa semplice. Vale anche a proposito dei ‘cine’. Però, quando il 27 agosto del 2014 le porte del ‘nuovo’ Classico si aprono, i compassati cittadini non riescono a nascondere il loro stupore. Un corridoio conduce al foyer, disegnato dal pavimento originale dell’Impero, dal soffitto a stucchi, dal lampadario in cristallo, dal rosso pompeiano dei tendoni e delle pareti cui sono addossate comode poltroncine nere; dai manifesti del Tagliagole di Claude Chabrol (firmato dal regista), di Chinatown di Roman Polansky, di Papà e in viaggio d’affari di Emir Kusturica. Una scala in marmo sale alla galleria, settanta posti, cui Stefano non ha voluto rinunciare «Avrei potuto sacrificarla, ma volevo che la sala fosse una e una soltanto». Dentro, ai piedi del grande schermo, cento e sette poltrone in un ambiente che unisce felicemente tecnologie e decori Novecento. Basterà, tutto questo, a restituire a un cinema offeso, deturpato, dimenticato, l’affetto del pubblico? «Per ricostruire un pubblico l’unica via era avere, nel tempo, una programmazione riconoscibile. Proponiamo titoli di qualità, storie da tutto il mondo scelte dalla Movies Inspired. Oggi posso dire che l’ottanta per cento di chi viene al Classico ci ritorna. Perché entrare qui vuol dire instaurare un rapporto, all’uscita dal film scambiare impressioni e pareri sul film. Qui non ci sono maschere, ci siamo noi». E quelli dell’Elena, ovviamente. Ottimi vini e ottimo caffè.