Ugo Chiti, oltre che un eccellente didatta, è ormai uno dei più solidi sceneggiatori del cinema italiano, la cui firma si intravede nei titoli di molti film diversi. Ma la sua passione originaria (e forse lo strumento principe della sua perizia drammaturgica), è ovviamente il teatro. La sua compagnia Arca Azzurra Teatro ha una storia quasi trentennale, e nella sua casa storica, a San Casciano in Val di Pesa, da sempre nascono e crescono i lavori di Chiti. Nei quali la lingua ha una funzione fondamentale: è una vera ricchezza, non solo espressiva, che moltiplica le potenzialità di un teatro «povero» quanto totale, un patrimonio da spendere e far fruttare, soprattutto nel rapporto che quella lingua riesce a instaurare con gli spettatori.

Tra qualche storia perfino «ruspante» e grandi percorsi al buonumore (del resto su una via maestra che parte da Boccaccio, per fare un nome), l’autore ama spesso metter le mani dentro i classici, in quegli intrecci e quelle figure che hanno fatto l’origine e la storia del teatro moderno. È capitato proprio al Decameron come alla Clizia di Machiavelli, all’Amleto shakespeariano e al recente Malato immaginario di Molière. Da quest’ultimo nasce anche la nuova riscrittura, L’avaro (dopo il debutto a Firenze al Niccolini, lo spettacolo è stasera e domani al Teatro della Fortuna di Fano, e poi in una fitta tournée fino a marzo).

Chiti lavora sul celebre personaggio quasi di scalpello (e non solo: oltre all’adattamento e alla regia firma anche lo spazio scenico cavernoso e i costumi senza tempo). Lo sbalza e lo raggela, lo agita di ideologia e lo deprime del suo vizio biblico del possesso. Non a caso, assieme al suo fido ensemble dell’Arca azzurra, chiama a protagonista Alessandro Benvenuti con la sua provata esperienza. Che qui non risulta da mattatore (anche se non gli dispiacciono certi numeri di mestiere) ma piuttosto come malattia profonda e radicata, che pure fa muovere una intera economia.

Economia del denaro e dei beni nascosti in quello che si rivela alla fine stregonesco antro di egoistiche proprietà, che rifluisce e tracolla come fiume impietoso e inarrestabile nella economia dei sentimenti. Di quelle coppie, di quei parenti, di quella servitù che nelle regole ferree della propria avarizia Arpagone vorrebbe ingabbiare. Lieto fine dolceamaro, come a Molière si confà, dopo aver riso sulla musicale comicità delle battute, e anche un po’ riflettuto nel riconoscere in trasparenza comportamenti e discorsi che oggi sono ancora più dominanti.