Sono passati trent’anni da quando Giovanni Paolo II apriva ad Assisi un «cantiere della pace» a cui chiamava a partecipare «non solo gli specialisti, i sapienti e gli strateghi», ma tutti i credenti attraverso i rappresentanti delle principali religioni mondiali. Era il 1986 e nello scenario della contrapposizione atomica si era parlato di un’«internazionale delle religioni» pensata (anche) in opposizione al blocco sovietico. Alle spalle c’era la lezione del Concilio Vaticano II che Wojtyla interpretava fedelmente (almeno su questo punto) quando indicava per le religioni una strada che non fosse «il risultato di negoziati, di compromessi politici o di mercanteggiamenti economici».
La profezia della pace, annunciata nella preghiera, doveva prevalere sulla via diplomatica che aveva caratterizzato il posizionamento della Chiesa nelle guerre del Novecento.

Solo su questo piano era ipotizzabile del resto quel fronte unitario che avrebbe dovuto proporre le «chiese» (e più in generale le confessioni) come agenzie mondiali di pace, senza comunque impedire al Vaticano di proseguire nelle sue operazioni di politica internazionale.

Nel corso degli anni l’appuntamento di Assisi è stato rinnovato grazie all’impegno della comunità romana di Sant’Egidio. Il discorso tenuto ieri da papa Francesco in questa cornice ormai «tradizionale» ha voluto rilanciare il progetto wojtyliano nel nuovo contesto mondiale evidentemente modificandone alcuni contenuti. L’idea di costituire una rete dei cristianesimi era stata proposta da Bergoglio già in occasione del viaggio a Lesbo dello scorso aprile, conclusosi con la dichiarazione congiunta con il patriarca Bartolomeo in cui si denunciava «la catastrofe umanitaria più grave dalla Seconda guerra mondiale».

Non sono nuovi neppure alcuni dei passaggi più penetranti dei due discorsi tenuti ieri tra la messa mattutina a Santa Marta e l’incontro nella Basilica di San Francesco. In primo luogo, è tornata la dissociazione netta tra il fenomeno religioso (in tutte le sue espressioni) e la violenza politica e terroristica: una condanna senza appello delle guerre di religione espressa non casualmente citando le parole di Giovanni Paolo II all’incontro del 2002 e dunque nel pieno dell’escalation statunitense contro il «terrorismo internazionale».

Come già altre volte, Francesco sembra però andare oltre quando ricorda che la violenza non solamente non rappresenta la «vera natura della religione», ma addirittura costituisce «un travisamento che contribuisce alla sua distruzione».

Se il riferimento diretto è allo Stato Islamico, si può immaginare che nel target del pontefice rientrino anche le forze politiche neo- identitarie, dagli Stati Uniti all’Europa delle destre radicali. Proprio sulla questione della legittimità della guerra si registra infatti un ulteriore scarto con la tradizione. Se già i pontificati degli ultimi cinquant’anni si erano mossi nella direzione di una progressiva delegittimazione della guerra come strumento per la risoluzione dei conflitti (si pensi alle campagne della Santa Sede contro le guerre umanitarie e preventive), papa Francesco archivia del tutto l’ipotesi di una guerra giusta (o comunque legittima) descrivendo la realtà di un conflitto permanente e sistematico che travalica i confini nazionali e assume forme ingovernabili.
Si tratta di una guerra «vicinissima» – spiega il papa – che però «non vediamo», perché non siamo in grado di inserire il terrorismo nel quadro d’insieme. Da questo punto di vista, l’appello alla preghiera sottoscritto dalle autorità religiose presenti ad Assisi assume un esplicito significato politico che interroga con precisione le scelte della comunità internazionale.