Sarebbe utile tornare a leggere il discorso di Palmiro Togliatti sul destino dell’uomo tenuto a Bergamo, nella città di papa Giovanni XXIII, nel 1963.

C’è in quelle parole una traccia precisa: l’esigenza di un dialogo con il mondo cattolico sul terreno della pace e della difesa dell’umanità dai pericoli insiti nella guerra e nello sfruttamento capitalistico.

Troppo semplice trarre da quel precedente la necessità di produrre oggi uno sforzo analogo, sollecitati dalla Laudato si’ di papa Francesco. Lo spazio di confronto è ancora quello della Pacem in terris, la cura delle ferite della terra e del cuore dell’uomo in un sistema iniquo e brutale.

Il tema che solleviamo è tuttavia un altro.

Togliatti lì ribadisce una scelta precisa (già esplicitata a nome del Pci nella discussione sull’articolo 7 della Costituzione): rompere con la tradizione anticlericale in cui il movimento socialista si era sin dagli albori specchiato, nel vivo di una storia politica nazionale che aveva visto la Chiesa assumere un ruolo oscurantista e reazionario. Reazionario persino rispetto allo Stato nazionale e allo sviluppo di una identità nazionale, che la Chiesa non riconosce e contrasta.

Togliatti invece coglie la fase nuova e l’esigenza di unire masse popolari che irrompono nella Storia per partecipare alla nuova costruzione democratica. Lo fa precisamente nel dialogo tra dottrine e valori interessati alla difesa dell’umanità dai rischi di un collasso atomico. «Di fronte alla minaccia concreta della comune distruzione la coscienza della comune natura umana emerge con forza nuova».

Non c’è più spazio per l’anticlericalismo, al centro c’è un nuovo umanesimo di matrice sociale.

La sua non è una scelta tattica, anticipa e accompagna riflessioni persino teologiche che si impongono nella seconda metà del Novecento. Parallelamente alla divulgazione delle teorie quantistiche, l’approccio materialista classico decade, la materia stessa assume un valore inedito e il discorso spirituale (teologico o gnostico) non solo non entra più in contraddizione ma pare aderire al discorso scientifico (la “Nuova fisica”) e a quello filosofico (lo “spirito libero” di Nietzsche).

Lo stesso concetto di “olismo” quale modo di ripensare strutturalmente il rapporto tra specie umana e natura è il fiore di tale adesione.

Dalla nuova correlazione tra discorso teologico, filosofico e scientifico entra in crisi la modernità (che è la scansione della vita in blocchi piramidali impenetrabili) e inizia (anzi, inizia ad iniziare, perché non ci pare che abbia ancora finito di iniziare) una nuova epoca, la nostra.

Al paradigma dialettico si va dunque progressivamente sostituendo una nuova forma di “conflitto”, la difference di Deleuze.

Il dualismo tra clericalismo e anticlericalismo rischia allora di essere un puro retaggio di quella modernità che non può tangere il discorso presente se non come una eco di qualcosa che non esiste né consiste.

Non esiste né consiste l’uno quanto l’altro termine della coppia.

La storia naturalmente procede in maniera sfumata e il nuovo nasce nell’antico, il fiume scioglie la pietra, mentre la dinamite crea solo inutili disastri.

La teologia cristiana, specialmente cattolica, si interroga da decenni su questi medesimi argomenti.

Si consideri il gesuitismo latinoamericano. Nel suo ventre – nell’alveo di un pensiero che mira a proteggere un discorso filosofico radicale dalle insidie della omologazione istituzionale, come fosse un ebraismo all’interno della Chiesa – si teorizza da ormai un secolo il passaggio teologico epocale (traumatico) dal “Dio” del giudizio alla “Dea” madre della creazione.

Insomma, il passaggio a una teologia femminista del Dio madre che – esattamente come la Teologia della Liberazione – chiede un ritorno al cristianesimo delle origini, considerando il simbolismo patriarcale e maschile del cattolicesimo una colonizzazione imperiale romana che entra in conflitto con lo spirito originario del culto.

A cosa allude, oggi, la Misericordia di Bergoglio se non al rifiuto del paradigma verticistico e feudale del maschile, fondato sul giudizio e sulla selezione? A cosa mira se non alla risignificazione del rapporto con Dio nei termini dell’accoglienza e del perdono tipiche del femminile e dell’eguale? La stessa proposta di questi giorni – apparentemente clamorosa – di riflettere sulla possibilità di introdurre il diaconato femminile nella Chiesa è del tutto coerente con questa impostazione di fondo.

Ancora, nei dintorni del gesuitismo sudamericano – nei dintorni di un movimento che sperimenta una delle prime utopie di federazione di terre autogestite, le reducciones paraguayane del XVII secolo – hanno trovato cittadinanza e ascolto le esperienze della Teologia della Liberazione e, più recentemente, persino del World Social Forum.

Torniamo di nuovo a Bergoglio, figlio e rappresentante di questa storia filosoficamente rivoluzionaria nei confronti dell’istituzione vaticana (che è storia dell’Impero romano che cambia giustificazione metafisica: questo è il clericalismo). Rapportarsi a lui come un rappresentante del clericalismo è poco meno di un abbaglio frutto di retaggi anticlericali otto-novecenteschi.

Si tratta semmai di capire in che misura – parafrasando il titolo di una efficace conferenza di Mario Tronti – lo spirito possa disordinare il mondo e chi oggi lo stia disordinando.

La politica e la spiritualità sono dimensioni decisive, che possono intrecciarsi, negarsi reciprocamente, contribuire a determinare uno sviluppo della Storia.

La forma della storia alla quale vogliamo appartenere ha a che fare con l’incontro tra queste dimensioni.

Le strade dei Social forum, dove un popolo religioso e spirituale si è incontrato con un popolo politico e conflittuale, ci hanno battezzato. Noi abitiamo in quella forma che la nostra storia si è data. Abbiamo l’impressione che il papato di Francesco aggiunga ciottoli a quella strada.