Il nuovo gruppo renziano avrebbe il compito di guidare il «Partito della Nazione» (copywrit di Alfredo Reichlin) verso il progresso e il benessere del nostro malconcio paese. Di fronte a questo partito finalmente maggioritario (anche se per effetto di deformanti premi di maggioranza e se di massa per il momento c’è solo l’astensionismo) è dunque lecito chiedersi se il suo padre nobile vada ricercato nel compromesso storico berlingueriano o se, viceversa, quel tentativo di governo della malcerta democrazia italiana non gli sia neppure parente perché, come diceva Enrico Berlinguer, «non c’è fantasia, invenzione o rinnovamento se si smantella quello che vi è alle spalle». La necessaria distanza temporale tra quella traiettoria berlingueriana e i nostri tempi potrebbe favorire finalmente un’analisi storica su quella stagione cruciale. E il libro di Chiara Valentini Enrico Berlinguer (Feltrineli, pp. 342, euro 14) è un ponte verso un auspicabile approdo storico per la notevole mole di documentazione relativa ai verbali delle direzioni del Pci, diventati pubblici in questi anni («una miniera di informazioni sui fatti politici anche internazionali, sulle decisioni e sugli scontri al vertice, per esempio negli anni ’80 Berlinguer si era trovato più di una volta in minoranza)».

Un mosaico da decifrare

Il punto di partenza, l’immagine che avvia il flash-back sul Pci di Berlinguer è sempre la stessa: perché quei funerali immensi, appassionati, pieni di gente in lacrime per un uomo riservato, per un leader distaccato e poco incline alla retorica del consenso. Scrive l’autrice alla fine del volume: «Quelle selve di pugni chiusi che Enrico non amava e che si alternano ai segni di croce, quegli uomini del potere che di colpo sembrano aver perso ogni antagonismo per il capo dell’opposizione, sono immagini di un mosaico mai decifrato del tutto».
A piazza San Giovanni insieme al dolore, quel 13 di giugno di trent’anni fa si respira anche una grande inquietudine, una sensazione insieme di tristezza e di affanno, come già vent’anni prima durante un altro celebre funerale, quello di Palmiro Togliatti. Nella prefazione al suo Quando c’era Berlinguer (la raccolta dei testi delle interviste apparse nel bel film omonimo), Walter Veltroni cita la conclusione di Storia degli italiani, dello storico Giuliano Procacci, su quei funerali del 1964: «Nella tristezza che lo accompagnava per l’ultima volta, vi era la consapevolezza di un traguardo che non era stato raggiunto e il presentimento di un lungo e faticoso cammino».
Se il film di Veltroni ci ha emozionato con la forza delle immagini, Valentini ci introduce al dietro le quinte del «potere rosso», ci consente di partecipare alla formazione di un leader, di seguirlo passo passo nella sua crescita umana e politica.

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In questo revival berlingueriano (bisogna dirlo: ricco di grandi banalizzazioni che, come ha scritto sul manifesto Luciana Castellina riferendosi al premio Strega, Francesco Piccolo, spesso dipingono Berlinguer come «la figura un po’ patetica del vecchio nonno»), la discussione politica si accende nel giudizio sulla linea politica degli anni ’70-’80. Tuttavia, e come sempre, vicenda privata e dimensione politica sono inscindibili. Si comprende Berlinguer se si è conosciuto Enrico, la sua casa, la sua famiglia, la sua città. E la tragedia che lo colpisce ancora ragazzino, interrompendo le belle estati di Stintino a giocare alla Rivoluzione francese (ovviamente prendendo per sé la parte di Robespierre). Una tragedia che ne cambierà per sempre il carattere estroverso, vivace, di figlio felice di una famiglia dell’alta borghesia sassarese. La madre si ammala di encefalite endemica, il male procede lentamente, poi la prende fino a deformarle il volto. Al punto che i compagni di giochi non frequentano più la casa di quel ragazzino che perde la madre quando frequenta il quarto ginnasio. Il professore che gli fa ripetizione parla di «un ragazzo disperato».
Le uniche occasioni in cui si sottrae alla solitudine sono le discussioni di politica nella grande casa di Sassari, con il padre brillante avvocato, borghese illuminato. «Avevo letto Bakunin – dice Berlinguer – mi sentivo un anarchico». Letture clandestine (Marx), letture libere (gli amati filosofi). A farne le spese gli studi liceali. Berlinguer preferisce di gran lunga il poker (dove invece è bravissimo). E con la scusa delle carte frequenta i luoghi di ritrovo dei comunisti dei quartieri poveri, dove inizia il suo percorso di «comunista autodidatta, un po’ estremista». Che finirà in carcere per aver organizzato i «moti del pane» a Sassari nel ’44. Senza il poker e le «cattive compagnie» chissà… forse non avremmo avuto il più importante segretario del Pci.
Il giovane Enrico all’università e alla vita professionale che la famiglia indicava, preferisce il partito, la militanza nelle organizzazioni giovanili. Un percorso lineare, solitario, di massima applicazione e devozione alle regole, ma sempre lontano dal fanatismo ideologico come è possibile leggere in un passaggio importante che Valentini mette a sigillo della prima parte del libro. Il XII congresso, nel ’69, e la successiva radiazione del gruppo del «Manifesto». Pagine intense, con le testimonianze di Rossana Rossanda e Luigi Pintor.
Si capisce che Berlinguer è contrario alla radiazione. Il segretario del Pci chiede e ottiene che la pubblicazione della Rivista «Il Manifesto» venga rinviata di qualche mese, ma quando finalmente va in edicola su quelle pagine c’è scritto chiaro e tondo che bisogna tagliare il cordone ombelicale con l’Unione sovietica. Tanto basta per mettere in moto il processo della radiazione. Al quinto numero («Praga è sola») scatta l’aut-aut: o chiudete la rivista o siete fuori. Non che dentro il partito non si discuta in termini forti, ma il dissenso non può essere così esplicito e così pubblico. A Belinguer viene riconosciuto di aver cercato in ogni modo di evitare il distacco. Il giorno della sua morte Pintor e Rossanda scrivono sul nostro giornale il loro saluto. «La radiazione fu una brutta pagina che Berlinguer non contribuì a scrivere… forse avrei dovuto parlarci più a fondo, prima della rottura… il nostro difetto maggiore è stata l’impazienza, il grande limite del Pci, all’opposto, l’essere lento e in ritardo», scrive Pintor. «È il segretario del Pci con cui si è consumata la nostra rottura. Noi abbiamo guerreggiato con il padre senza mai maledirlo», scrive Rossanda sulla stessa prima pagina. Sospeso tra tradizione e innovazione, tra conservazione e rivoluzionamento, Berlinguer fa un passo avanti e poi torna al centro. Il partito innanzitutto.
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Del resto Belinguer aveva dimostrato la sua allergia alle bastonature staliniane, anche in un’altra occasione, accaduta molto tempo prima della radiazione del gruppo del «Manifesto». L’episodio è raccontato in una pagina molto preziosa. Dai verbali della direzione del Pci del 30 ottobre del ’56, sui fatti d’Ungheria, emerge il «processo» al segretario della Cgil Giuseppe Di Vittorio. Il leader sindacale si sfoga con l’amico Antonio Giolitti («L’armata rossa che spara sui lavoratori di un paese socialista è inaccettabile»), rincarando poi la dose con una sua pubblica dichiarazione: «L’intervento sovietico viola il principio dell’autodeterminazione dei popoli». Togliatti, e sia pure con toni diversi, scrive Valentini, «tutti gli uomini della direzione, da Amendola a Ingrao, da Longo a Terracini, si erano schierati con il segretario criticando duramente il capo della Cgil. L’unica voce contraria era arrivata dal membro più giovane, dal poco più che trentenne Enrico Berlinguer: ’In Ungheria c’è stata un’esplosione di malcontento popolare e ciò esige di spiegarne le cause… se ci sono due posizioni tra i compagni della Cgil e il partito si sostengano apertamente». È l’inizio di una lunga marcia che lo allontanerà progressivamente dal regime sovietico per avvicinarlo al valore universale della democrazia, anche a costo di rischi personali (l’ormai accertato attentato in Bulgaria nei primi anni ’70).
Così come è una lunga marcia quella che lo porterà dalla diffidenza verso il referendum sul divorzio all’adesione al movimento femminista. Un aspetto della «rivoluzione culturale» berlingueriana che opportunamente Valentini sottolinea. Nel ’74 noi del Manifesto parliamo di occasione straordinaria per la trasformazione dei rapporti sessuali e sociali, in sintonia con il sentimento profondo del paese. Berlinguer è «togliattiano». Preoccupato degli equilibri politici con la Dc, riduce la questione cattolica a questione democristiana. Il libro insiste, e giustamente, sull’evoluzione del segretario che approderà alla «teoria differenza», convincendosi del nuovo approccio teorico: «Se non ci sarà anche la rivoluzione femminile non ci sarà alcuna reale rivoluzione in Occidente».
E tuttavia sotto la sua guida si esprime la linea più di destra del partito, pur non essendo Berlinguer un uomo della destra comunista, anzi, come scrisse Rossanda alla sua morte, essendo «più un uomo dei Fronti popolari che parente di Turati».
E per politiche di destra si devono intendere i due grandi abbagli strategici: il compromesso storico (dopo il golpe cileno del 1973), un grave errore di prospettiva perchè in quel momento l’Europa sta andando a sinistra non a destra; perché la Dc non è Moro ma Andreotti. E la successiva, coerente scelta dell’unità nazionale, nel ’76, quando il Pci lascia soli i movimenti del ’77, con tutto il terribile fardello che ne conseguirà, fino all’assassinio di Aldo Moro. No, è la tesi del libro, proprio l’«affaire Moro» dimostra che Berlinguer aveva visto giusto sulle tensioni autoritarie, aveva ragione a perseguire lo storico compromesso.

La seconda svolta di Salerno

Furono comunque brucianti sconfitte politiche, appuntamenti mancati, ricco concime per l’anomalia italiana. Sottolineare i punti di un dissenso strategico con quel partito comunista è importante anche per riconoscere la successiva rottura di continuità che nel 1980 prende corpo con la cosiddetta «seconda svolta di Salerno», dopo il terremoto dell’Irpinia, quando tra lo «strappo» in politica internazionale, la vicenda operaia della Fiat e l’esplodere della questione morale, i ragionamenti di Berlinguer si dirigono verso quell’alternativa di sinistra che la prematura fine non gli consentirà di mettere in atto. Questo leader, sconfitto ma non disilluso, torna all’intesa con la sinistra, chiama i quadri del Pdup a entrare nel partito, dà nuova spinta al movimento pacifista. Non farà in tempo a percorrere le sue nuove frontiere, muore proprio quando urge una rifondazione della sinistra in un paese che vive l’onda di piena del craxismo, preludio di un berlusconismo che scorre ancora invisibile sotto la pelle. Intanto il mondo televisivo di Arcore esibiva una neutralità tutta apparente egemonizzato dalle future teste d’uovo della sinistra post-moderna.
Oggi vediamo tramontare quel mondo ma sopravvivergli l’egemonia sottoculturale, e quella questione morale che il «pensiero lungo» di Berlinguer aveva declinato come questione democratica, né più né meno. Il segretario del Pci fu persino vilipeso, dentro e fuori il partito, in una violenta polemica ingaggiata in nome di una pax craxiana dalla destra comunista di Giorgio Napolitano. Solo Fabrizio Barca ha ripreso la discussione nei termini berlingueriani, di una famelica invasione delle affaristiche nomenklature di partito nelle istituzioni. Inascoltato. Si fa prima a dire «prendiamoli a calci nel sedere questi corrotti», oppure «mandiamo un supercommissario», che a ripensare quelli che ancora ci ostiniamo a chiamare partiti mentre in realtà sono comitati, cordate, elettorali, preludio al presidenzialismo che verrà.