Il grande uno rosso, Prima linea, Dieci secondo col diavolo, Quella sporca dozzina, …..Fury è un rimando a cinema bellico di Sam Fuller, Robert Aldrich e persino John Ford, una fangosa, gelata, cartolina dal fronte durante le ultime fasi della seconda guerra mondiale, nella cui soporifera gravitas è rimasto letalmente impantanato, insieme all’equipaggio del carro armato che dà il titolo al film, un regista/sceneggiatore generalmente dinamico come David Ayer. Film sull’inequivocabile macello della guerra visto dalla contemporanea Hollywood pacifista, Fury è un inno all’eroismo americano e al cameratismo maschile molto più esplicito di quanto lo sia American Sniper ma, protetto com’è dalla patina del tempo, e da un nemico a prova di polemica come i nazisti, difficilmente entrerà nel dibattito ideologico che si è creato intorno al film di Eastwood.
E se la scelta di uno stile tradizionale, vecchio stampo, poco vistoso (quindi diverso per esempio dallo Spielberg di Il soldato Ryan), è pregevole, questo ritorno di Brad Pitt (anche produttore esecutivo) ai campi di battaglia della WW2, nei panni del comandante di un carro armato Sherman, ci fa terribilmente rimpiangere il suo luogotenente Aldo Raine in Bastardi senza gloria, quello sì un erede degno dei dodici pendagli da forca/kamikaze di Aldrich.

Autore delle sceneggiature di Training Day ed End of the Day (di cui era anche regista), Ayer si muove qui con molta più cautela, anche nel genere di ambiguità che rendevano avvincenti gli altri suoi film. Il che fa di Fury un oggetto senza particolare ragione di essere. Pitt è Don «Wardaddy» Collier, un comandante di poche parole, pugno di ferro e che alla guida di un carro armato, battezzato non a caso Fury, dimostra i riflessi e il knowhow di un pilota di Formula uno (la scena più bella è una battaglia tra tank in campo aperto).

Siamo nella primavera del 1945, le truppe alleate stanno convergendo verso Berlino ma, tra loro e la capitale, rimangono alcune sacche di resistenza nazista. Collier e i suoi uomini (Shia LaBoeuf che è soprannominato «Bibbia», Michael Pena, «Gordo», e Jon Bernthal, il red neck di turno) sanno che la guerra finirà tra poche settimane ma anche che, non importa quanto siano sfiniti, c’è ancora parecchio lavoro da fare prima di poter celebrare la vittoria. Quando il loro mitragliere viene ucciso, a sostituirlo arriva una giovane recluta che non ha mai messo piede su un campo di battaglia.

E il film gioca parecchio sulla contrapposizione tra la sua prospettiva «vergine» e quella indurita, cinica e quasi bestiale degli altri. Collier si muove un po’ tra i due mondi, un leader spietato anche con i suoi (ma a fin di bene), che ha modo di mostrare un suo lato cavalleresco (e i pettorali nudi di Brad Pitt, inspiegabilmente sfregiati per l’occasione) in una scena particolarmente brutta e didascalica, ambientata in una casa di donne tedesche dove gli americani si recano a mangiare.

Lasciati indietro per coprire le spalle ai battaglioni in marcia verso Berlino, i carri armati Usa vengono decimati, uno dopo l’altro, durante un agguato nazista. Tutti meno Fury, che sta cedendo a pezzi ma a cui rimane l’ingrato compito bloccare un contingente di SS che altrimenti farebbe a pezzi gli alleati. Un po’ come succede nell’israeliano Lebanon (che sicuramente Ayer ha visto), gran parte del finale si consuma all’interno della trappola di metallo che dà il titolo al film, potenzialmente un Transformer antidiluviano a cui però Ayer non attribuisce nessuna personalità, filmica e non.