La scoppola, imprevista, è arrivata dal New England, dal ricco, liberal e bianco Massachussetts dove la maggioranza, se pur risicata, ha finito per scegliere Hillary Clinton. Così come del resto hanno fatto, in modo massiccio, gli elettori del profondo sud.

In Georgia, Alabama, Tennessee e Arkansas si sono schierati con lei, con percentuali altissime, gli elettori afroamericani, ma non solo loro. Perché se si guarda al Texas, patria dei latinos, che qui rappresentano ormai il 30 per cento dell’elettorato, il risultato non cambia affatto, e la front runner democratica porta a casa addirittura il 65 per cento dei voti.

E alla fine, in una sola notte, Bernie Sanders si è trasformato da aspirante presidente a candidato di bandiera. Una bandiera che ancora sventola garrula, visto che il vecchio socialista ha comunque conquistato non solo 4 degli 11 stati del Supertuesday, ma anche piu di 330 delegati (contro i 492 di Hillary Clinton), e le casse della sua campagna elettorale sono ancora piene. Nel solo mese di febbraio sono arrivati addirittura 42 milioni di dollari.

E altri ne arriveranno visto che i fan sono, e rimangono, centinaia di migliaia, disposti a donare magari pochi spiccioli, ma ogni settimana. Nei prossimi giorni poi, quando ci si spostera’ nel bianco Nebraska e nella patria della working class americana, il Michigan, Bernie Sanders darà sicuramente del filo da torcere all’avversaria.

Ma ciò che manca all’appello, ormai in modo sin troppo chiaro, è con quale mai coalizione, senza l’appoggio delle minorities, che tanta parte sono oggi dell’elettorato democratico, si possa davvero pensare di conquistare la Casa Bianca. Così come è purtroppo naufragato il tentativo di superare le antiche diffidenze, di unire sotto la bandiera dei progressisti la sinistra di ogni colore.

Il primo ad ammetterlo, del resto, è stato proprio Bernie Sanders. Fin dalla sconfitta, bruciante, della South Carolina, ma ancor più martedì sera dal suo Vermont, dove ha chiuso la nottata elettorale, il vecchio socialista ha messo in chiaro che l’obiettivo è arrivare alla convention del partito, che si terrà a Philadelphia a fine luglio, con un solido pacchetto di delegati. Sufficienti a far pesare per davvero i temi che lo hanno reso così popolare, a partire dalla lotta alla diseguagliaza sociale, quando si stilerà la piattaforma elettorale democratica.

Ma anche, perché no, se i numeri lo permetteranno, per cambiare, a favore dei progressisti, gli equilibri del partito. Visto che già a Philadelphia si comincerà a discutere, anche se solo sottovoce e non certo dal palco, su chi siederà accanto a Hillary, se sarà lei l’erede di Barack Obama, nelle stanze del potere. Sarà insomma una battaglia di lunga durata.

Ed è una prospettiva che allarma non poco il gruppo dirigente del partito. Preoccupato che i toni finiscano per inasprirsi, mettendo una contro l’altra le sue due anime, indebolendolo invece di rafforzarlo quando a novembre arriverà il giorno della sfida finale. Hillary Clinton, come ha detto e ripetuto già l’altra notte nel suo discorso a Miami, adesso che si sente in tasca la vittoria delle primarie, è già impaziente, vorrebbe subito voltar pagina.

Abbandonare la disfida con Bernie Sanders e prepararsi, anzi meglio, preparare l’intero partito alla battaglia con i repubblicani. La vittoria di Donald Trump infatti non allarma solo l’establishment del Gop. Anche se per ora il supermiliardario newyorkese si è limitato a pescare a man bassa nella base, dura e pura, bigotta e razzista del partito repubblicano, non è detto che sia così ancora a lungo. La sua anomalia, come si è visto ad esempio in Texas, dove pur arrivando secondo ha portato con sé molti giovani latinos, potrebbe in futuro far presa anche tra gli elettori indipendenti.

Perché l’ondata populista, l’odio per i palazzi di Washington e i politici di professione, così come la delusione di chi è rimasto sotto le macerie della Grande Recessione, rimane forte, a destra come a sinistra. E non si spegnerà così facilmente.