Transatlantico versione 25 aprile, si festeggia in anticipo il 70esimo della Liberazione, deputati e senatori sono accorsi a omaggiare gli anziani combattenti, ovunque si scattano selfie con fazzoletti partigiani. Pier Luigi Bersani ha appena finito di cantare Bella ciao in aula (scena strepitosa, tutto l’emiciclo lo ha fatto) e ora, che invece parla di Italicum, è bello tonico: «Qui parliamo di un problema di sistema democratico. Non siamo mica qui a parlare del 25 aprile e poi prendere alla leggera Costituzione o legge elettorale? Sono esterrefatto». L’ex segretario Pd se la prende con i giornali che, ricostruendo l’assemblea dei deputati Pd della notte precedente, descrivono le minoranze divise e pronte a mollare: «Io non ho visto una ritirata, ho visto un’idea di combattimento». Il capogruppo alla camera Speranza, suo figlioccio politico, si è dimesso. Ci ripenserà? «Chiedetelo a lui. Io ho trovato la sua posizione coerente, forte». Dopo qualche ora è ancora carico: «Questo dell’Italicum cos’è, il sistema del ’ghe pensi mì?». La citazione di Berlusconi evidentemente non è casuale.

Ricapitolando le puntate precedenti del serial «Democrack»: le minoranze Pd, 120 deputati all’anagrafe teorica (contestata però da Lorenzo Guerini), non hanno votato la relazione del premier che chiedeva di approvare l’Italicum così com’è. Ora dovranno decidere se dire sì o no alla legge e, nel caso, alla fiducia, che pure per Matteo Orfini sarebbe «un’extrema ratio». Speranza si è dimesso. Del suo caso i deputati discuteranno la prossima settimana. Prima però l’ufficio di presidenza Pd deciderà se sostituire i 12 dissidenti della prima commissione (su 23, quindi la maggioranza) dove ora si discute il testo. Fin qui i fatti.

Ma sulla loro interpretazione nelle stesse minoranze i pareri divergono. Radicalmente. Bersani per esempio, che della corrente Area riformista è fondatore – e leader del fronte irriducibile – ha già detto che se non cambia la legge non la voterà. Con lui una trentina, forse meno: fra gli altri Cuperlo, Bindi, Civati, D’Attorre, Fassina, Bindi, Galli, Pollastrini. Non così Davide Zoggia che proprio ieri a Un giorno da pecora annuncia: «Presenteremo tre emendamenti», ma anche se non passeranno alla fine «voteremo sì». Sarebbero della partita anche Enzo Amendola, forse Nico Stumpo, di certo Dario Ginefra. Quest’ultimo chiarisce ulteriormente: «Chi afferma che sull’Italicum esista un approccio omogeneo nella minoranza Pd non coglie il disagio profondo che in queste settimane in tanti abbiamo provato nell’assistere a forzature spesso pretestuose e che è stato uno dei motivi che ci ha spinto a condividere il documento dei 70», quelli che hanno inutilmente – fin qui – scongiurato Renzi di riaprire il dialogo. Gli stessi, più o meno, che giovedì hanno fatto l’alba a fare strategie in un pub del centro – La Base, un tempo ritrovo dei naziskin romani – e che guardano con fiducia alle aperture di Renzi sulla riforma costituzionale. Alle quali, al contrario, Bersani non crede: «Ma quali aperture, dopo che l’art. 2 è stato blindato vorrei capire quali possono essere». In effetti al senato potrebbero essere modificati solo pochi articoli: ironia delle sorte, quelli cambiati a Montecitorio proprio dalla sinistra. Che quindi ora si troverebbe nella paradossale situazione di emendare i propri emendamenti: un capolavoro.

Ieri le minoranze (Area riformista, cuperliani, bindiani e Civati) si sono concesse una pausa di riflessione. Presto dovranno decidere come votare in aula; e prima ancora che fare in commissione. Bersani e Cuperlo hanno dato la disponibilità ad essere sostituiti, D’Attorre e Bindi invece daranno battaglia anche lì perché Renzi non ha escluso il ricorso alla fiducia nel voto finale. Ipotesi che Bersani dice di «non considerare neanche». Altri sono pronti «ad accettare» le scelte del gruppo. Del resto la commissione, che da martedì comincia a votare, non concluderà i lavori: è già deciso che la legge andrà in aula il 27 aprile.

Prima però sarà affrontato il caso Speranza. E neanche a dirlo, anche su questo le minoranza sono divise. L’ala ultrà è favorevole a che il giovane le mantenga. I ’trattativisti’ lo spingono a ritirarle «a patto che si riapra un confronto». Ieri 21 senatori gli hanno espresso solidarietà. Un segnale eloquente: in caso di modifiche dell’Italicum, la sinistra garantisce il successivo sì al senato, dove la maggioranza ha 9 voti di scarto. «Ora la soluzione del rebus è in capo a Renzi», spiega chi ha parlato con il dimissionario. Ma il tema non è in cima alle preoccupazioni di Renzi. Anzi su tutta la partita il premier ostenta tranquillità. «E qui sbaglia», spiega un riformista-trattativista. «Noi alla fiducia voteremo sì. Ma sui voti segreti il segretario, se non cambia atteggiamento, rischia di andare sotto. E non si illuda nel soccorso forzista: ormai anche Forza Italia ha capito che la minaccia di voto anticipato non è seria».