«Se vincerà il sì io rimango. Il Pd è casa mia». Non è la prima volta che l’ex segretario Pier Luigi Bersani lo dice. Ma negli ultimi giorni, nelle sue tante iniziative per il No – ieri era a Torino – «l’unità del Pd» è diventato un mantra, un concetto da ripetere ossessivamente, da fare entrare bene alle orecchie di amici e nemici interni. Roberto Speranza fa lo stesso: ieri ha ripetuto di voler costruire «un’alternativa a Renzi perché abbiamo perso tanti militanti che non si riconoscono in lui». Ma se vince il Sì è chiaro che la minoranza interna sarà ridotta a una minoranza silenziosa. Il punto è cosa succede se vince il No.

Messaggio numero uno: altro che scissione e ’fuori fuori’. Nessuno, fra i parlamentari, intende seguire D’Alema nell’ipotesi per ora vaga di una nuova ’cosa’ a sinistra. Quanto all’aggregazione a cui lavora l’ex sindaco Pisapia, è un’altra cosa: inutile se viene inglobata nel Pd, utile se riesce a intercettare un po’ di sinistra radicale ora che Renzi si è riconvertito alle alleanze. Ma questa sarà un’altra storia.

Messaggio numero due: Renzi metta da parte gli scenari apocalittici. Lo traduce a chiare lettere un altro dirigente della minoranza: «Renzi abbandoni il personalismo, accetti di restare al governo. Poi ci sarà il congresso: che è il percorso ’naturale’ di un partito che conserva una sua visione unitaria». È l’unica strada per evitare che il Pd si trasformi in Beirut e viceversa il Nazareno renziano in Fort Alamo. Il rischio è che il referendum, comunque vada, cambi la natura del Pd», è la conclusione.

Nel caso di un Renzi ’responsabile’ Bersani offre collaborazione: «Ho dato 50 voti di fiducia, tranne che sulla legge elettorale e sono pronto a darne un’altra ventina», assicura. Bersani si riferisce innanzitutto ai voti di fiducia che servirebbero per approvare la manovra, magari dopo i rilievi provenienti dall’Europa. Che non si annunciano teneri. Poi ci sarà da riscrivere la legge elettorale, un percorso che difficilmente si potrà chiudere in poche settimane. Ormai dalla stessa cerchia renziana viene esclusa l’ipotesi di un governo Padoan, ministro di Renzi al quale il Pd avrebbe difficoltà a staccare la spina. Meglio, è il ragionamento, un governo istituzionale a guida del presidente del Senato Pietro Grasso, verso il quale il Pd – core ingrato – non sente alcun obbligo di lealtà. Per andare presto al voto.

Ma questa strada ha i suoi rischi. In questi giorni al Nazareno si prendono le misure con l’ipotesi di elezioni prima dell’estate, avanzata esplicitamente da Lorenzo Guerini. Per il Pd sarebbe difficile andare al voto senza passare per un congresso. «Sarebbe un colpo di mano», avvertono quelli della minoranza. Servirebbe anticipare le assise, da ottobre – la scadenza naturale – a fine marzo, al massimo gli inizi di aprile. Quella di Renzi è la stessa idea di Gianni Cuperlo («Congresso rapido, congresso subito»). Ma è un’ipotesi che ha alcune controindicazioni.

Anche archiviando il previsto cambio di statuto (era in programma una messa a registro delle primarie) fra il voto dei circoli e quello dei gazebo le operazioni non potrebbero concludersi prima di due mesi. E così si arriva a fine maggio. Per poi andare al voto a giugno, con la campagna elettorale più breve della storia della Repubblica? Non impossibile, ma certo non sarebbe la road map più sicura per un Renzi che, fatto un passo indietro dopo il referendum, volesse avere la certezza di farne due avanti per tornare a Palazzo Chigi.