Avevo otto anni, poi nove, poi dieci, undici, dodici. Amavo i libri ma i libri pesavano e noi viaggiavamo leggeri. Dalle primissime volte iniziai ad appassionarmi ai fumetti in inglese che si trovavano in India a quell’epoca: prima le storie di tutte le numerosissime divinità indù (conoscevo nel dettaglio come e perché Ganesha ha avuto in cambio della sua testa di bambino quella di un elefante, tutti i poveri disgraziati passati tra le braccia assassine della dea Kali – che si pronuncia Cali e non Calì come si dice in Italia, amavo il momento in cui Krishna, poco più che neonato, si appassionava a mangiare il burro di nascosto, da dietro il suo furbo visino bluastro, e Shiva e Parvati coppia inscindibile e tutti gli altri, che sono molti).

 

 

Poi, non so esattamente dove, se nello shop di un albergo a cinque stelle o in una bancarella sul selciato del mercato di Chandni Chowk, trovammo dei fumetti americani degli anni Sessanta che narravano le avventure di un gruppo di adolescenti nel Massachusetts: Archie (apparso per la prima volta nel dicembre del 1941, creato da Bob Montana, per Pep Comics), Betty and Veronica, Josie and the Pussycats, Sabrina e altri. Erano in inglese (lo scritto in qualche modo è più facile e sicuramente più pedagogico), mi facevanoallo stesso tempo lezione di lingua e intrattenimento divertente per me, quasi adolescente come i protagonisti delle storie.

 

 

Avevo i miei personaggi preferiti, le mie storie preferite, le mie battute preferite. Non so come mi sia tornato in mente in questi giorni né, soprattutto, come mai un prodotto così funzionante non sia stato esportato fuori dai confini degli Stati Uniti. Ricordo una ragazza bionda che si chiamava Betty, così carina e volenterosa e sportiva, la brava ragazza del liceo, innamorata di Archie, ricciolini rossi e lentiggini e anche lui tanto un bravo ragazzo, tanto adorato dalle madri, tanto bravo a scuola, compagnone con tutti. Poi però c’era Veronica, bellezza più adulta, più simile al fascino oscuro della matrigna di Cenerentola: capelli lunghi neri e occhi viola, un po’ alla Liz Taylor. Veronica è ricca, altera, raffinata, piena di macchine, di ville con piscine e di cose meravigliose, ma anche lei ama Archie, che si fa contendere tra la bionda e la bruna in un eterno combattimento ad armi impari perché la biondina Betty – forse per luogo comune sulle bionde un po’ giulive un po’ sceme, stile Marilyn – è la più ingenua mentre Veronica è la trafficona, più losca, quella capace di armare delle trappole per avere Archie tutto per sé. In tutto questo io mi calavo, direi quasi sempre, nei panni della bionda forse solo perché sotto il sole dei 40° all’ombra del continente indiano i miei capelli lunghi fino al sedere si schiarivano e quindi mi piaceva identificarmi con questa brava ragazza americana pur non avendoci nulla in comune (una sorta di catarsi contro il mio sentirmi diversa a casa mia, nella mia scuola, nella mia città). A un certo punto le due diventano amiche ed escono fuori da questo fumetto il cui titolo proviene dal protagonista maschile Archie e viene prodotto un fumetto tutto loro, Betty e Veronica, che a me piace ancora di più perché mi ricorda me e le mie due migliori amiche in Italia e tutti i traffici che cominciamo a fare alle medie per i ragazzi.

 

 

 

 

Su internet ho fatto alcune ricerche: il fumetto da luglio 2016 è di nuovo in stampa, le storie sono contemporaneizzate, le due sono ancora giovani, single, un po’ amiche un po’ rivali. Su di loro non è passata la polvere del tempo. Sulla mia collezione di giornaletti sicuramente si, lasciati a marcire, con mio grande dispiacere, nelle cantine dell’Hotel Imperial di Delhi perché in valigia avrebbero causato un’indesiderata tassa per extra luggage.