Nella notte tra il 2 e il 3 dicembre del 1984 si è consumata a Bhopal, Madhya Pradesh, «la più grande tragedia industriale della storia». È un virgolettato inteso ormai come tragedia per antonomasia, mentre per la multinazionale americana Union Carbide – passata sotto il controllo della sempre americana Dow Chemical nel 2001 – responsabile della fabbrica di pesticidi di Bhopal, si è trattato e ancora oggi si tratta di «incidente». Termine fatalistico, nella gestualità indiana sarebbe accompagnato da mani rivolte al cielo fatte roteare incessantemente, come a cogliere una mela dall’albero: «kya kare?» si direbbe, «cosa possiamo farci?».

A trent’anni di distanza la letteratura giornalistica e giuridica intorno ai fatti di Bhopal ha assunto ormai dimensioni enciclopediche e come andarono le cose quella notte è ormai un assunto di dominio pubblico.

La fabbrica gestita dalla succursale indiana di Union Carbide, controllata al 51 per cento dalla casa madre americana e al 49 da banche statali indiane, versava in condizioni di sicurezza precarie: manutenzione approssimativa, materiali in stato di semi abbandono, condizioni che nel secondario in India sono ancora oggi molto spesso la norma.

A causa di un’infiltrazione d’acqua – che Union Carbide imputa a un atto di sabotaggio – si innesca una reazione chimica all’interno di una delle taniche contenenti isocianato di metile, liquido altamente tossico utilizzato nella produzione plastiche e diserbanti. In forma gassosa, una nuvola tossica viene sprigionata dalla fabbrica, raggiungendo in poche ore il vicino centro abitato. Nel giro di un paio di giorni i morti accertati sarebbero stati oltre duemila, senza contare l’alone di morte propagatosi nelle vicinanze dell’impianto. Alberi rinsecchiti, terreni e acqua avvelenati, migliaia tra capre e mucche immediatamente abbattute per provare ad arginare il contagio.

Le morti causate direttamente dalla perdita tossica saranno oltre 5000 (tutti morti di asfissia), 4000 i disabili. Le complicazioni di carattere medico, secondo i numerosi gruppi di sopravvissuti e ong locali, hanno ucciso altre 25mila persone in trent’anni mentre oltre mezzo milione oggi vive in uno stato di disabilità permanente all’apparato cognitivo, ai polmoni o ai reni.

Nella Bhopal avvelenata il tasso di mortalità infantile, dal 3 dicembre 1984, è aumentato del 300 per cento. Del 200 per cento quello di morte endouterina fetale.

La richiesta di risarcimento e di giustizia per via legale ancora oggi rimane largamente inevasa, complice una sostanziale inazione delle autorità indiane.

All’indomani della tragedia, il governo indiano fece passare una legge che permetteva al governo stesso di centralizzare le richieste di risarcimenti in sede legale: di fatto il governo si fece portavoce unico delle istanze dei sopravvissuti, ingaggiando una battaglia legale, in territorio indiano, contro Union Carbide.

La richiesta iniziale di 3,3 miliardi di dollari di risarcimento venne drasticamente ridimensionata davanti al rifiuto di Union Carbide, accontentandosi di 470 milioni di dollari, pagati a New Delhi nel 1989. Una parte dei sopravvissuti ricevette, in media, 400 dollari a testa, mentre altre decine di migliaia con problemi cronici di respirazione, vista, emicranie, non rientrando nel computo ufficiale delle «vittime di Bhopal» stilato dal governo, sono state semplicemente dimenticate.

Lo scorso novembre, avvicinandosi il trentennale della strage, decine di cittadini di Bhopal hanno manifestato davanti al parlamento di New Delhi, chiedendo che il nuovo governo Modi ricalcolasse il numero degli aventi diritto a compensazioni e riaprisse la disputa con la nuova proprietà di Dow Chemicals. Dopo sei giorni di sciopero della fame portati avanti da sei donne, un funzionario del Ministry of Chemicals ha raggiunto i manifestanti annunciando che il governo si sarebbe impegnato a rivedere le cifre e richiedere una giusta compensazione per le vittime.

Nel frattempo il territorio di Bhopal continua a essere contaminato: liquami tossici fuoriescono senza soluzione di continuità dalla fabbrica abbandonata, avvelenando i corsi d’acqua e aggiungendosi ai residui di mercurio e altre sostanze tossiche risalenti ai versamenti della fabbrica in attività. Secondo le stime, i 6,4 ettari circostanti l’impianto sarebbero tecnicamente inutilizzabili. Letali.

Dal 1984 a oggi nessuna operazione di bonifica è stata portata avanti né dal governo né da Union Carbide, che si è limitata ad aprire un ospedale per il trattamento specifico dei sopravvissuti. Nessuno vuole prendersi la responsabilità economica delle onerose operazioni di pulizia, tanto che per Dow Chemical l’affare Bhopal è un caso chiuso, anche dal punto di vista legale.

Nel giugno del 2010 sette ex dipendenti della succursale indiana di Union Carbide – tra cui il presidente – sono stati condannati a due anni di reclusione e una multa di 2000 dollari. A tutti furono immediatamente garantiti gli arresti domiciliari.

Nel 1991 il tribunale di Bhopal condannò l’allora presidente di Union Carbide Warren Anderson per omicidio colposo, reato punibile fino a un massimo di dieci anni di carcere. Anderson non si presentò mai in aula in India.

Il governo indiano compilò e presento le pratiche per l’estradizione solo nel 2003, iniziativa alla quale Washington si oppose considerando le accuse formulate basandosi su prove «insufficienti». Secondo Union Carbide, la responsabilità dell’«incidente» doveva essere interamente imputabile alla succursale indiana.

Il 29 settembre 2014 Warren Anderson «è morto in una clinica privata a Vero Beach, California, all’età di 93 anni. La notizia, per volontà della famiglia, non venne comunicata ai media per un mese.

Secondo quanto riportato da quotidiano indiano The Hindu, quando a Bhopal si venne a sapere del decesso di Warren, un gruppo di sopravvissuti si radunò fuori dalla fabbrica abbandonata portando un grosso ritratto dell’ex presidente di Union Carbide. E a turno, uno per uno, ci sputarono sopra.