La Biennale Musica 2016 – appena conclusa – haproceduto spesso a zig-zag. Anche con cadute regressive che hanno stonato rispetto al fervore da edizione prestigiosa delle prime giornate, con quella figura di Sciarrino a dominare la scena. Stravaganti musiche (e visioni) per la tradizione accademica del festival sono quelle del gruppo americano Bang On a Can All-Stars. Una vera rock (pop) band, ma con parecchie raffinatezze musicali e culturali. Lavorano sui reperti sonori o visuali o di vita quotidiana e ne ricavano 11 composizioni con i rispettivi autori. Ma il tutto sembra un po’ un lavoro collettivo, una sola sequenza di quadri pieni di voci fuori campo, di spezzoni di film, di elaborazioni leggere e ficcanti dei materiali sonori.

C’è nel concerto del gruppo, che sembra avere come leader il clarinettista Ken Thomson, un vago sapore di Lovely Music, vale a dire quella comunità di autori, da Robert Ashley a Peter Gordon a Blue Gene Tyranny, che tra i ’70, ’80 e ’90 del secolo scorso deliziarono i musicofili non disciplinari con sapientissime elaborazioni di quelle che erano per loro le avventure del quotidiano, del bar all’angolo, del predicatore sociale nella piazza accanto e così via. Bang On a Can All-Stars è più pop. Minimalismo o echi di minimalismo o procedimenti tipici del minimalismo ce ne sono in buona quantità. In Reeling di Julia Wolfe la voce fuori campo intona un motivo, una ballata di strada ma misteriosa e tutti gli strumentisti lo riprendono swingando un po’, lo ripetono in fugato e con «sfasature» alla Reich. Il celebre artista «multiplo» Christian Marclay gioca musicalmente sul pastiche, compresi spunti di free, e accompagna (o contrappunta?) certi spezzoni veloci di film, la sua specialità. Forse troppo illustrativo. E questo è anche il limite del progetto di Bang On A Can All-Stars nel rapporto tra musica e immagini.L’ensemble Accroche Note porta di sicuro uno stile di performance non inamidato, come è quello che si osserva e si patisce ai concerti classici contemporanei. Ma non tutte le musiche che presenta sono convincenti. Trio basso di Yann Robin traumatizza piacevolmente. È free jazz arrabbiato della più bell’acqua. Il clarinettista Armand Angster, il violoncellista Christophe Beau e il contrabbassista Nicolas Crosse sembrano seguire le orme, che so, di Ayler, di Brötzmann, di Barry Guy.

E invece sono tutte note scritte in una partitura che imita i modi della total improvisation. I santoni del free si indispettiscono per il paradosso ma il risultato non è niente male. La vocalista (e fondatrice dell’ensemble) Françoise Kubler è deliziosa nella novità di Pascal Dusapin intitolata Beckett’s bones, naturalmente su testi di Samuel Beckett. Però la sua virtù di melodista gentile non viene valorizzata molto a lungo dall’autore, che aggroviglia le sue linee di suoni senza cambiare il carattere da primo ‘900 moderato. Su tutti i compositori in scaletta eccelle Mauro Lanza con Tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria. Un dispositivo di iterazioni sottovoce in un clima, di consapevole serena disperazione sembra dover sfociare il qualche acme o in qualche decisiva variante, e invece rimane nel suo stadio emotivo (esistenziale?). Per ora non si vedono vie d’uscita. Bei timbri netti, bel senso della costruzione anti-retorica.

Altro ensemble: Fontanamix. Sono famosi per le loro scelte di musiche rigide al limite del punitivo. Non si smentiscono. Sono un esempio dei rischi regressivi che il festival corre. Ma accolgono un lavoro di Andrea Sarto, Noli. Me. Tangere (II), davvero notevole. Soli accenni di linee, di punti, di piccoli arabeschi. La situazione di ascolto che si crea è tale da far immaginare un vuoto sensibile, un’assenza fremente. Miracoloso.