Grazie alla totale incertezza sulla sua data di nascita e sul suo uso, il bikini è adatto a entrare nella classifica delle cose intramontabili. Ha, infatti, tutte le caratteristiche delle dive di cui sono vaghe la provenienza e la data di nascita e che restano per sempre adorate, conosciute e venerate, come la Lola Montés di Max Ophüls o Elina Makropoulos di Leoš Janáček, personaggi inventati ma reali quanto le loro storie. Come loro, il bikini è venerato per i suoi meriti incerti. Al pari di molte storie che sono scoppiate nella moda, infatti, il bikini ha un’origine tutta confusa e pretestuosa, dovuta un po’ alla semplificazione giornalistica e molto anche al disinteresse generale della cultura ufficiale per le cose della moda. Più recentemente, è successo anche alla minigonna, che si dice sia stata inventata dall’inglese Mary Quant ma era già stata disegnata e prodotta anni prima da André Courrège e Paco Rabanne che avevano, per quell’epoca di dominio culturale della Swinging London, il difetto di lavorare a Parigi.

La leggenda metropolitana, che tutti sanno ripetere a memoria, dice che il bikini è nato il 5 luglio del 1946, inventato da un sarto francese, tale Louis Réard, sconosciuto allora quanto è sconosciuto oggi. Il quale deve avere approfittato, in tempo record, della notizia dei primi esperimenti nucleari condotti dall’esercito americano in Micronesia dove, proprio agli inizi di luglio di quell’anno, vengono sganciate ben due bombe all’idrogeno sull’isola di Bikini, che si trova in quell’arcipelago. La storia ha una sceneggiatura epica che, francamente, sarebbe più degna di un commercial per un dado da brodo. E se grazie a essa Réard ha potuto dare il nome Bikini alla sua invenzione di moda (che oltretutto, si dice, le modelle avevano rifiutato di indossare e, per poterlo mostrare, il sarto è stato costretto a chiamare Micheline Bernardini, una spogliarellista del Casino de Paris), l’indumento ha provocato una deflagrazione simile a una bomba in una società che era diventata stranamente pudica e benpensante in fondo soltanto da poco più di un secolo. L’intuizione di chi ha scritto questa fragile storia che sa di luogo comune, attribuisce anche a un tale Jacques Heim l’invenzione precedente di un costume da bagno che si chiamava Atollo (ancora un richiamo alla bomba all’idrogeno) perché era il più piccolo costume da bagno del mondo ma comunque era un pezzo intero. Réard l’ha reso ancora più piccolo staccandolo addirittura in due pezzi. Fatto è che da allora a oggi, il bikini è sempre presente, intramontabile costume da bagno da spiaggia e da piscina, feticcio dell’erotica maschile, indispensabile indumento femminile e sorprendente trappola di stile, autore degli inestetismi e delle classifiche delle “peggio vestite” di ogni stagione che, per puro voyerismo, aumentano le pagine viste dei siti dei blasonati giornali di news e dei magazines di gossip da spiaggia, italiani soprattutto.

In realtà, tutta questa propagandata novità il bikini non la possiede. Non la possiede certo la sua forma, di cui si ha notizia storica in qualche bassorilievo mesopotamico del 1400 aC. La sua rappresentazione più conosciuta si trova nei mosaici del III secolo della Villa del Casale a Piazza Armerina, in Sicilia, dove le “Fanciulle in Bikini”, conosciute anche come le Bagnanti – impropriamente perché all’epoca casomai si nuotava nudi – decorano i pavimenti della palestra. Quindi, verosimilmente, una fascia sul seno e qualcosa che suona come l’antenato delle mutande odierne in quell’epoca meno pudica serviva alla ragazze per fare sport e non certo per fare il bagno (oggi Eres, un marchio francese, ne fa una linea molto simile). Poi, evidentemente, la storia si è dimenticata di quell’immagine e tutto ciò che ci rimanda al bikini ci arriva da un’epoca molto recente, l’inizio del Novecento, il secolo scorso. Ed è, più o meno, legato alla guerra (che è un mondo di maschi) e all’illustrazione di un immaginario erotico che, nelle intenzioni, doveva tenere alto lo spirito dei soldati o, quantomeno, servire da valvola di sfogo immaginario capace di tenere lontane e distaccate le fisicità di troppi uomini soli rinchiusi in caserma: quando quelle immagini non bastavano, succedeva quello che Gore Vidal racconta in La statua di Sale, con il conseguente allarme di “messa in pericolo” per la mascolinità mondiale. Forse fu anche per scongiurare la diffusione dei troppi numerosi episodi scoperti di un cameratismo sempre più fisico e affettuoso tra i soldati che, agli inizi degli anni Quaranta e poi di più con l’ingresso degli Stati Uniti in guerra, le famose pin up vengono disegnate sempre più spesso con meno vestiti addosso, sempre meno con lingerie e reggiseni e culotte e sempre più con un misto di indumenti che ricordavano sì la culotte ma sembravano pantaloncini, sapevano sì di reggiseni, ma sembravano camicette annodate sotto al seno, avevano sì l’aspetto discinto, ma erano comunque compatibili anche come indumenti da indossare in località al caldo, in California soprattutto. È in questi anni che i disegnatori Gil Elvgren, Frahm Arte, George Petty e Alberto Vargas, già attivi durante la “Pin up golden age”, e cioè dagli inizi degli anni Trenta e per tutti i Quaranta, mettono per così dire il costume da bagno Bettie Page, che solitamente indossava corsetti e guȇpière. Cioè, cominciano a disegnare le donne con quella forma di indumento che, alla fine della guerra, doveva inopinatamente assumere il nome di bikini. Certo, nulla a che vedere con il modello che conosciamo oggi che, semmai, è più simile a quello delle fanciulle di Piazza Armerina. Il “due pezzi” disegnato sulle Pin up incollate sulle ali degli aerei bombardieri avevano culotte alte fino a sopra i fianchi e un reggiseno che scendeva fino a sotto le costole. Rimaneva scoperto l’ombelico, punto centrale della figura umana che, chissà perché, per gli uomini diventa sexy se è quello di una donna.

Questa visione maschilista della moda, che non è assolutamente rara, ha comunque portato al successo la nuova bomba del guardaroba femminile, tanto che a partire dagli Anni 50 le donne hanno creduto che potesse essere uno strumento per la loro liberazione sia sessuale sia di genere. Tanto è vero che negli Usa, e ovviamente verrebbe da dire, ne fu vietato l’uso sulle spiagge o in luoghi pubblici. Anche se, molti anni prima, fu proprio il sogno americano di Hollywood che aveva fatto trapelare le foto delle sue dive in allevamento nelle ville di Beverly Hills, di proprietà delle case di produzione, proprio con costumi da bagno simili ai bikini e adagiate come statue di dee attorno alle piscine. Del resto, Hollywood doveva cominciare a vendere una mitologia e quelle immagini, sebbene fatte filtrare ad arte, a quello servivano. Intanto, mentre la regina del nuoto sincronizzato Esther Williams si rifiuta di indossare il due pezzi nei suoi film per tutti gli anni Cinquanta, Rita Hayworth già si fa fotografare con l’ombelico scoperto nel 1946: ma lei era peccaminosa per natura e, soprattutto, nella fantasia dei soldati era già una bomba atomica anche con l’abito da sera. Comunque, gli Stati uniti proibirono espressamente l’uso del bikini alle partecipanti al concorso di Miss Mondo del 1951. Il senso americano della pruderie non può sopportare che la nudità, o la quasi nudità, che consente il bikini possa essere sdoganata da una moda che mentre lascia il corpo delle donne quasi completamente scoperto dà l’alibi che deriva dall’uso specifico in spiaggia o nelle piscine, che in America sono sempre state di moda, e non solo in California. Così, se Pin up e addirittura le dive del bondage, come Bettie Page e le sue epigoni, possono essere autorizzate a esibirsi con bustier, culottes ridottissime, sottovesti e tutto il resto degli indumenti che appartiene al mondo della lingerie, l’esibizione delle donne in bikini disturba quel comune senso del pudore che è sempre difficile definire. Soprattutto in un Paese che è nato facendo dei vizi privati e delle pubbliche virtù più una fede che una cultura. Alla fine, la liberazione di un indumento così peccaminoso arriva più dall’accettazione sociale del voyerismo maschile che da una presa di coscienza sulla libertà femminile. La riprova è che mentre i costumi da bagno delle donne negli anni continuano a ridursi, fino al far cadere il reggiseno con la nascita del topless e fino a ridurre lo slip al tanga o al perizoma, il costume da bagno maschile diventa sempre più coprente: passata l’epoca dello slip e relegato il famoso modello Speedo all’attività sportiva nelle piscine olimpioniche, oggi la maggior parte degli uomini eterosessuali usa pantaloncini di media lunghezza, dallo short al bermuda da surf, e si stende a prendere il sole accanto a donne eterosessuali seminude. Un po’ di malizia porta a dire che gli uomini, contrariamente alle donne, non sopportano la valutazione pubblica delle loro forme anatomiche.

Ma proseguendo con la storia del bikini, in Europa tutto va più liscio, secondo il percorso in discesa che di solito nel Vecchio Continente hanno sempre avuto le nascite delle mode. In Italia, contrariamente a quanto si possa pensare, Lucia Bosé si fa vedere in due pezzi da educanda, avendo l’ombelico appena coperto, al concorso di Miss Italia del 1947, che vince. E Sofia Loren (allora ancora con la f e non ancora con la ph) nel 1950 vince il titolo di Miss Eleganza indossando un bikini di raso. La bombastica bellezza della Loren, non ancora diva ma già molto bella, sdogana il due pezzi anche Oltreoceano. Almeno al cinema, visto che in America nel 1953 esce Niagara di Henry Hathaway e Jean Peters appare in un due pezzi scandaloso, mentre la sua coprotagonista Marilyn Monroe era già in bikini sulla copertina di Picture Post nel 1949 e arriverà in monokini (cioè il bikini senza reggiseno) in Something’s Got to Give del 1962 by Lawrence Schiller, il suo ultimo film neanche finito di girare. Ma ad aprire completamente il mercato americano, visto che in Europa un mercato c’era già da metà Anni 50 grazie alla spregiudicatezza delle spiagge di Saint Tropez, è l’uscita di Et Dieu créa la femme di Roger Vadim che arriva sugli schermi americani nel 1958 (in Italia è uscito, come in Francia, nel 1956 con l’orrendo titolo Piace a troppi) con la finta innocenza di Brigitte Bardot. A quel punto, Itsy Bitsy Teenie Weenie Yellow Polka Dot Bikini, la canzone di Brian Hyland del 1960, fa il resto. Il successo è completato da Ursula Andress, mai più superata Bond Girl in Agente 007 Licenza di uccidere del 1962. Che poi tutte le donne del mondo, per indossarlo liberamente sulle spiagge, abbiano dovuto aspettare ancora qualche decennio, e la foto sui rotocalchi della principessa Margaret d’Inghilterra già duchessa Snowdon che prendeva il sole in bikini sullo yacht dell’Aga Khan in Sardegna, è un altro discorso. Ma qui siamo già agli inizi degli Anni 70.

La moda, quella dei couturier e dei desgner, arriva a occuparsi del bikini molto tardi. In realtà, lascia il campo alle aziende specializzate in corsetteria che aggiungono reparti e macchine per la produzione di reggiseni preformati, con le coppe a cuore, a balconcino, con o senza spalline, che sono in tutto simili ai reggiseni dell’underwear tranne che per le fantasie e i tessuti. L’utilizzo in massa della fibra Elastam (che comunemente tutti chiamano Lycra dal nome che le ha dato la DuPont, il produttore più famoso, nel 1960) permette una modellistica più facile, con il vantaggio di una maggiore impermeabilità e velocità di asciugatura. Non è che i fashion designer si preoccupano molto di questo indumento che, dagli Anni 70 in poi, spopola sulle spiagge mondiali: la moda sopporta poco il nudo e il caldo, preferisce esercitarsi sul coperto e sulle temperature più basse. A meno che non si parlasse di avanguardia. In quel caso, la fantasia dei fashion designer correva più della realtà. Tanto è vero che, Rudi Gernreich, ebreo austriaco naturalizzato americano e tra i primi attivisti della liberazione omosessuale, dopo aver smesso di fare il ballerino con la Lester Horton’s Modern Dance Company a Los Angeles nel 1942, diventa un premiatissimo fashion designer e, mettendo a frutto la sua esperienza anche come disegnatore di costumi per il balletto, già nel 1964 presenta il primo monokini, indossato dalla modella Peggy Moffitt.

Da allora, tutto si mischia e si trasforma velocemente. Le dimensioni si riducono, l’immaginario del bikini da spiaggia si confonde con quello dei set del pornomovie, i materiali diventano tecnologici, la moda pretende il ritorno al costume da bagno intero e, spesso, dalle forme sportive, e le donne di tutto il mondo continuano a preferirlo tra i mille modelli disponibili. E si ritorna all’oggi. Quando la storia del bikini, intramontabile abito della spiaggia, si confonde con gli inestetismi giustificati dal falsamente anarchico convincimento che “nella moda tutto è permesso”.

12900

BOX

Bikini al mercato

Dicono i dati relativi al 2011, secondo uno studio della società di ricerca NDP sono gli ultimi disponibili, che in tutto il mondo il fatturato delle aziende che producono costumi da bagno è di 7,8 miliardi di euro. E il bikini è solo uno dei tanti modelli di costume da bagno. Di certo, non è un’industria ricca, però deve essere molto varia, vista la quantità di modelli che riesce a immettere sul mercato ogni anno. A meno che, data la parcellizzazione della produzione mondiale, un’altra grossa parte di fatturato non venga prodotta dai piccoli laboratori che sono disseminati in Brasile come in Italia,in Marocco e in Australia o in Israele. Proprio in Israele, a Tel Aviv, nel 1956 è stata fondata la Gottex, all’epoca un’industria pionieristica e poi diventata una delle più grandi aziende produttrici mondiali di costumi da bagno. La fondatrice, Lea Gotlieb, era arrivata in Israele durante gli anni dell’occupazione nazista dell’Ungheria, dove lavorava come modellista per un’azienda di impermeabili, esperienza messa a frutto creando, in una terra più calda di quella natia, la prima industria di moda nello stato israeliano nato otto anni prima. Gottex esportò subito il suo prodotto in tutto il mondo e a produrre per stilisti famosi (anche per Yves Saint Laurent e Pierre Cardin), tanto che negli Anni 80 è diventato un marchio alla moda proprio tra i seguaci della moda. Prima che la Gotlieb lasciasse la direzione, l’azienda era arrivata a fatturare 44 milioni di dollari. Ne guadagnavano, probabilmente, molto di più i suoi distributori mondiali perché il ricarico al pubblico di un costume da bagno ha sempre avuto una media che va oltre il 200 per cento, dicono gli esperti. Che evidenziano anche una distribuzione molto polverizzata che si disperde tra grandi magazzini, mercerie, negozi di abbigliamento intimo e, moltissimi, negozi stagionali in migliaia di località balneari nel mondo che, spesso, vendono un’autoproduzione artigianale che sfugge a ogni classificazione. L’altro grande continente dove si consumano i costumi da bagno prodotti dall’industria è l’Europa, che consuma un terzo del valore totale. La classifica dei suoi Paesi, che assorbono il 70 per cento del totale, vede in testa la Francia (432 milioni di euro). Seguono: Italia (417 milioni), Spagna, Germania e Regno Unito. Lasciando perdere i grandi gruppi, come appunto in passato Gottex o Catalina e Cole of California (poi riunite nella Warnaco Group e poi sparita senza però far sparire il marchio Speedo), ma anche gli italiani Calzedonia e simili, il settore non rappresenta un settore industriale esteso. Anche perché, non cambiando la moda da molti anni e non essendo un prodotto di cui i fashion designer si occupano con attenzione – semmai la loro attenzione è più per i proventi delle licenze – gli esperti dicono che un costume da bagno viene utilizzato da uomini e donne per almeno tre anni (m. c.)