Talmente fascinoso da sembrare uno pseudonimo, benché ormai non più famoso come allora, il nome di Daphne Du Maurier attraversa il tempo illuminato dal fiabesco bianco e nero di Rebecca. Sopravvive impigliato ai tronchi, alle radici, ai rami su cui Alfred Hitchcock inchioda la macchina da presa nell’onirica sequenza iniziale del suo primo film americano, l’unico premiato con un Oscar. Ha la forma delle spirali di nebbia che intorno a quelle fronde si allargano sinistre con effetto di sipario, il suono della musica inquietante da cui lo spettatore è accompagnato lungo il sentiero in abbandono verso la casa dentro il parco. La voce stessa della scrittrice londinese, nata nel 1907 e divenuta celebre a soli trentun anni proprio con il romanzo da cui nel 1940 fu ricavato il film, sembra identificarsi con quella dolce ma ansiosa, increspata di sgomento, che trova Joan Fontaine mentre sussurra la battuta d’apertura, uno dei più popolari incipit della narrativa novecentesca: «Ho sognato stanotte che ritornavo a Manderley».
Dimora sontuosa quanto agghiacciante, gotica follia infestata da misteri, Manderley si staglia anche nell’interpretazione hitchcockiana come la protagonista principale del racconto. Il sogno della seconda signora De Winter da cui si snoda in flash-back tutta la trama, concluso dallo sconforto per quel ritorno impossibile poiché Manderley ormai «non è più», allude però a ragioni espressive che oltrepassando la storia di Rebecca percorrono in profondità l’opera intera di Daphne Du Maurier. Ha dunque un esatto significato il titolo Manderley forever voluto da Tatiana de Rosnay per la sua biografia della scrittrice e purtroppo sacrificato dall’editore italiano – che sotto l’etichetta Beat manda in libreria anche una ristampa di Jamaica Inn – al forse più veloce, certo più anodino Daphne (traduzione di Alberto Folin, Neri Pozza, pp. 427, € 18,00). Uscito in Francia all’inizio dello scorso anno, annunciato per la prossima primavera in Gran Bretagna, il libro è infatti costruito intorno alle case abitate da Du Maurier, fondali su cui l’autrice mette in scena la dinamica, fertile collisione non solo tra presente e passato, soprattutto tra apparente realtà dei fatti esterni e segreta verità del mondo interiore.
Una scrittrice popolare
Francese ma di madre inglese, franglaise gioca a definirsi lei, Tatiana de Rosnay è come la sua protagonista una scrittrice da milioni di copie, almeno dieci ne ha venduti in tutto il mondo La chiave di Sara (2006). A differenza dell’autrice di Rebecca, che dichiara di avere letto a tredici anni decidendo proprio per quel libro di voler diventare narratrice, de Rosnay non si direbbe tuttavia rosa dal desiderio di essere apprezzata oltre che dal pubblico anche dalla critica: «Non sono un orefice delle parole», ha dichiarato in molte occasioni, piuttosto «una scrittrice popolare che racconta storie che parlano alla gente». Così ha voluto percorrere l’esistenza di Daphne Du Maurier non costruendo una «biografia convenzionale», ma seguendola quasi fosse una regista, «camera in spalla per farla rivivere». Il suo Daphne è più esattamente il romanzo di una vocazione irresistibile, segnata dalle continue incursioni dell’immaginazione nella vita quotidiana, dalla fascinazione per il mistero e per il doppio, dalla scoperta precoce dell’orrore celato sotto la superficie rassicurante delle cose.
Firmando nel 1960 una biografia di Branwell Brontë, la prima in cui lo sfortunato fratello di Emily e Charlotte ha il ruolo del protagonista, Du Maurier manifestava l’intenzione di narrare la vicenda di «un presunto genio» la cui «infelicità» non era da imputarsi a una «storia d’amore abortita», come aveva sostenuto per prima Elizabeth Gaskell, ma all’«incapacità di distinguere la verità dal romanzo, la fantasia dalla realtà»: Branwell, conclude apertamente l’autrice, «fallì perché la vita era in disaccordo con il suo “mondo infernale”». Si direbbe che abbia tenuto in mente queste precise parole Tatiana de Rosnay, se al contrario ha scelto di narrare la storia di un’esistenza salvata dalla capacità di comporre sulla pagina le disarmonie di un’ambigua, mercuriale sensibilità. Ciò che le interessa raccontare è la donna seduta allo scrittoio che impara a servirsi di tutte le sfumature del romance, dell’horror, del melò per addomesticare sulla pagina i mostri da cui sono abitati il suo cervello e il suo cuore.
Il cognome inventato dal bisnonno
Il sortilegio dell’immaginazione sembra splendere sul destino di Daphne Du Maurier già dalla nascita. Di origini francesi, che avrebbe scoperto lei stessa ben più umili di quanto tramandasse la memoria famigliare, portava un cognome inventato dal bisnonno al suo arrivo in Inghilterra; suo nonno era uno scrittore conosciuto, il padre un attore che la bambina vide impersonare sulla scena, nella stessa piéce, tanto lo spaventoso Capitan Uncino quanto il sorridente Signor Darling. L’autore stesso di Peter Pan era un amico dei genitori, il libro lo aveva scritto pensando ai suoi cugini. Sono motivi cui Tatiana de Rosnay, seguendo le memorie pubblicate dall’autrice, non manca di offrire la giusta luce. Diventa però ben più vistosa con l’adolescenza, soprattutto con la scoperta di quello che la stessa Du Maurier definisce «il ragazzo nella scatola» e de Rosnay l’inquietante consapevolezza di essere un «maschio mancato», la vera direzione che la scrittrice imprime alla sua biografia.
Il matrimonio con l’allora maggiore nonché futuro generale Boy Browning, celebrato un anno dopo l’uscita del primo libro Spirito d’amore (1931) e solido fino alla morte di lui benché costellato da tradimenti reciproci; l’attrazione segreta verso altre donne; l’amore per Ferryside e Menabilly, le case in Cornovaglia preferite a qualsiasi lussuosa residenza londinese; la passione della solitudine, assecondata contro ogni lusinga di mondanità e successo: Tatiana de Rosnay ricuce attraverso le apparenti contraddizioni una storia femminile che interpreta non esattamente in chiave trasgressiva, piuttosto all’insegna della libertà e del coraggio, di una fin troppo moderna integrità. Verità e fantasia, immaginazione e realtà dialogano in Daphne senza confondersi, desiderando l’autrice raccontare soprattutto come un narratore nutra i propri libri con la sua vita, con le sue mutilazioni e i suoi fantasmi.
Una gragnuola di calci
Per quanto rettifichi la grafia di una località francese, de Rosnay non aggiunge nessuna novità alle informazioni esibite dalle precedenti biografie inglesi, servendosi in sostanza di fonti già note. Allo stesso tempo, come ha dichiarato in più di un’intervista, non inventa: la sua rilettura in chiave romanzesca non si rivela però sempre fedele. La bambina Daphne che risponde con una gragnuola di calci alle provocazioni dei compagni è ad esempio frutto di invenzione, se in Myself when young (1977) la stessa Du Maurier concludeva l’episodio raccontando invece di essere scappata. Seducente e fluida benché a tratti leziosa (soprattutto dove sceglie il monologo interiore), purtroppo crivellata in italiano da fastidiose improprietà lessicali (cos’è una «diversione genitoriale»? e un’«atmosfera fantomatica»? come sono fatti un «taglio sordido» o un «filone conturbante»? davvero un narratore «trucida» un personaggio, un conflitto «avvampa», un mazzo di chiavi «clicchetta»?), la biografia firmata da Tatiana de Rosnay si direbbe tradire la sua protagonista solo per guardarla meglio, per poterla vedere da vicino.
Scriveva a suo tempo Muriel Spark che la principale qualità di The infernal world of Branwell Brontë sta nella «riposante benevolenza dell’interpretazione». Per quanto Du Maurier arrivi talvolta all’ingenuità, spiegava, è una vera «vacanza per il lettore» imbattersi in una biografia che privilegia «l’ipotesi migliore e non la peggiore». Ecco, la stessa riposante sensazione di vacanza Daphne oggi sa risvegliare in noi.