«Birolli pittore metamorfico», diceva di lui il suo principale e fedelissimo collezionista, Guglielmo Achille Cavellini. «Sono pittore sino ai denti, coi quali vorrei mangiare tutto», diceva invece Renato Birolli di se stesso. Due dichiarazioni convergenti, perché il mutare, il presentarsi sempre diverso e sempre proiettato su terreni inesplorati sono proprio l’esito di quella natura un po’ famelica.

La parabola di Renato Birolli è una parabola che è difficile inquadrare e la bella mostra organizzata a Torino negli spazi chiari e distesi del Museo Ettore Fico (sino al 26 giugno; a cura di Elena Pontiggia e Viviana Birolli) ne è una evidente conferma. Dagli inizi con le tele che potremmo accostare al chiarismo, sino agli ultimi grandi Canti, il percorso della mostra è un susseguirsi di rotture, di svolte, di distacchi netti da ciò che era stato dipinto prima: lo sviluppo dello spazio espositivo, che si allunga in una sorta di unico open space, rende ancor più evidenti questi salti del sismografo creativo di Birolli.

Nato a Verona nel 1905 da famiglia modesta, Birolli nel 1928 si trasferisce a Milano dove già abitava una sua sorella. È una Milano che nell’arco di un paio d’anni vede arrivare, oltre a lui, Manzù, Arturo Martini, Semeghini, Cassinari, De Grada, Tullio Garbari e in particolare Edoardo Persico, che pittore non era ma che avrebbe avuto un grandissimo ascendente sul mondo artistico. Un ascendente di carattere più etico che pratico e stilistico. «Ci attendeva alla libertà lirica del colore», scrive Birolli a proposito del magistero di Persico. «Nel tempo del ritratto di mio padre e di mia madre disse che il giallo ‘lavorava’ in una zona speciale, in una aria morale libera».

Quel giallo è il timbro di una stagione che nasce proprio da un primo strappo rispetto al tono incantato degli esordi milanesi: forse la sua stagione più forte, quella abitata da istintive certezze. Sono quadri densi, raggrumati in quel giallo che consolida le forme e insieme le fa ardere nell’intensità del colore. È un momento di evidente grazia creativa, in cui a Birolli riesce di realizzare opere che certo tengono il passo con la migliore pittura di quegli anni e che svelano una personalità con pochi tentennamenti, capace di una calibrata ambiguità, come dimostrano il magnifico Ritratto della madre (1933) e il Nudo con la maschera (1934). Una stagione che trova la sua sintesi nell’Autoritratto con Pascal (1934), in cui Birolli si mette in posa con in mano un libro sul quale si legge a lettere capitali il nome del filosofo francese. Da un periodo così qualsiasi artista avrebbe ricavato informazioni sufficienti per tracciare un percorso che lo avrebbe potuto proiettare lontano. Non così Birolli, il cui pensiero inquieto, come evidenzia la preferenza per Pascal, sta sempre più avanti rispetto alla sua pittura. E in un certo senso la destabilizza continuamente.

In realtà il movente che mette fine al breve periodo figurativo impregnato di giallo (un giallo che ha la stessa intensità e la stessa concentrazione del porpora nei contemporanei quadri di Scipione) è un movente esterno: la nascita di Corrente nel 1938. Nel movimento Birolli ha un ruolo di primo piano, anche se arriva presto a smarcarsi dall’indicazione per una «pittura che esca allo scoperto» difesa da Guttuso, Morlotti e Cassinari. Tanto da trovarsi confinato all’opposizione: «Il pittore Cassinari ritiene opportuno allontanarsi da me», scrive. «S’allontanano Migneco e altri di lui minori… Chiamano legittimo il lavoro allo scoperto, ossi la volgarità che pesa». E poi rincara le dosi: «Paciosi ex esteti cominciano a nominare il “sangue”… E forse è ancora l’Arcadia tinta di rosso». Birolli a suo modo è artista militante in quegli anni, iscritto al Pci, ma ha l’idea che il lavoro artistico non possa essere schematicamente cucito sugli obiettivi dell’impegno nella società. In questo si pone in parallelo con un altro “eretico” come Giovanni Testori, che in quegli anni prende le distanze da Guttuso con una appassionata lettera a proposito del realismo.

Birolli si smarca con l’intelligenza che contraddistingue ogni suo giudizio anche dal picassismo imperante: «Si parla di questo grande pittore come di un demiurgo, di un toccasana per tutto e per tutti: errore, errorissimo… Io parlavo di Picasso, ma non per sfottere Cézanne o Van Gogh, ma per armonizzare qualche evento della storia dell’arte e del costruire».

Nel frattempo la sua pittura è profondamente cambiata, a partire dal dato cromatico. Si eclissano i gialli e dominano i verdi e le terre: Birolli in questa stagione si muove tra qualche imbarazzo, sollecitato da spinte che non sente pienamente sue. Per cui la sua originalità sembra più affidata alle parole che non alle opere. Non è un caso, visto che si è sempre dedicato alla scrittura, con collaborazioni a numerosi giornali, arrivando anche a pubblicare una rivista propria, destinata a durare un solo numero. Tante riflessioni sono affidate a un’attività epistolare fittissima: un patrimonio che i figli Marco e Zeno hanno affidato in comodato al Gabinetto Viessieux di Firenze e che comprende in particolare le 249 lettere inviate a Cavellini tra 1949 e 1959, insostituibile vademecum per capire il «pittorissimo» (così ama definirsi) Birolli.

Insofferente rispetto a ogni schematismo, Birolli cerca un proprio spazio libero tra realismo e astrazione, girando alla larga dall’informale. Sono gli anni in cui mette a fuoco l’idea di amorfismo; come spiega nel bellissimo saggio in catalogo Viviana Birolli, storica dell’arte oltre che nipote dell’artista, si tratta di un’idea covata sin dalle riflessioni giovanili, quando indagava il colore come «nucleo emozionale» e il quadro come «seme», «cumulo di forze incorrotte». L’amorfismo quindi è come un presagio di forme. Come sottolinea sempre Viviana Birolli, «l’astratto e il concreto circoscrivono due estremi ideali tra cui articolare liberamente il diritto dell’espressione di circoscrivere il reale nel complesso delle sue ragioni».

È infatti il reale a sollecitare sempre il percorso delle ultime stagioni di Birolli. Gli incendi visti dalla costa di Manarola o il mare «nero» del suo eremitaggio marchigiano di Fossa Sejore sono le leve che generano cicli di opere in cui ci ritroviamo davanti un artista mai uguale a se stesso, ma sempre pronto ad approfondire con percorsi originali le sollecitazioni visive ricevute. Nel frattempo Birolli, anche grazie all’amicizia con Afro, rompe l’angusto orizzonte italiano e apre un fronte americano con tre mostre da Catherine Viviano. Il riscontro, anche dal punto di vista del collezionismo, è molto buono. E rende ragione del suo disallineamento rispetto all’ortodossia di Corrente.

Che gli orizzonti di Birolli siano larghi lo dimostra la scelta di trascorrere l’inverno 1957 a Anversa, spinto dal perdurare dei suoi entusiasmi per Van Gogh ed Ensor. «Il vento invernale raggela le cose a cristallo», scrive. «E le grandi falcate alte dei gabbiani ne son l’espressione rapida e desolata». A queste visioni si aggiunge l’emozione dei canti popolari fiamminghi e il suono delle campane della cattedrale, «una vera orchestra di campane suonate con il pugno». Sono queste le sollecitazioni che generano l’ultima metamorfosi del Birolli pittore: il bellissimo ciclo dei Canti. Un vero colpo d’ala, in cui l’artista interiorizza anche l’impatto con l’action painting americana in una sintesi dominata dal lirismo dei bianchi. Scrive: «Nei canti popolari fiamminghi ho opposto l’amorfo di una zolla umida, ossia la presenza fisica, all’elemento astratto del canto… È importante far noto che per un pittore “sentire” significa apprezzare tutte la analogie, ossia “vedere” continuamente qualcosa. È tutto qui».

Quest’ultima citazione è spunto per un’osservazione finale. Raramente capita leggendo un saggio di catalogo di voler correre sempre alle note per conoscere la fonte o leggere il completamento delle citazioni. Con Birolli questo succede, a conferma di una straordinaria qualità del suo pensiero sulla pittura. Le sue parole a volte sono quasi più avanti degli stessi quadri, perché riescono ad esprimere una visione acuta, precisa e insieme anche molto empatica. Ma questo fa parte di un personaggio contrassegnato da una grande eleganza intellettuale. Un artista che per tutta la vita ha evitato le scorciatoie e si è tenuto alla larga dalle tante scontatezze che affliggevano molti suoi compagni di strada. Anche a costo di una solitudine, vissuta con grande dignità, sempre e comunque in nome dell’amore per la pittura.