Non si dovrebbe vedere questa passeggiata sonora, dato il titolo, Blind Walk, e allora gli spettatori, tanti, belli, internazionali, nella Sala delle Colonne di Palazzo Ca’ Giustinian, sono invitati a indossare una mascherina. Invece guardano quasi tutti, disobbedienti all’autore. Che è il trentottenne polacco Marcin Stanczyk.
Gli strumentisti dell’Ensemble tedesco Musikfabrik, famoso e abilissimo (quanto a capacità di emozionarsi e divertirsi è da verificare), si dispongono in tutti i punti della sala, chi in piedi chi seduto chi semisdraiato, e da subito cominciano a spostarsi, a deambulare senza una meta, senza un ordine stabilito, almeno così dovrebbe essere a sentire il compositore: «Una vera passeggiata non conduce in alcun luogo». Si spostano, passeggiano, ed emettono suoni molto in libertà eppure molto ben prescritti in partitura. Li dirige Johannes Schöllhorn.

Gli archi suonano soffiando sui bordi della casse armoniche vicino alle corde, i fiati entrano in successione e sono più ricchi di note, pur sempre rumoristiche. I numerosi percussionisti privilegiano secchi colpi di legnetti e di triangoli, prima radi poi più fitti. Ad alcuni strumentisti sono affidati a intervalli irregolari, tali da simulare l’ad libitum, vocalizzi senza parole, anzi puri rumori di bocca saliva gola. I suoni sono brevi o brevissimi, si crea una specie di pioggia avvolgente di suoni dis-melodici e dis-armonici. In tutto il procedere di questa azione musicale c’è una scansione del tempo «implicita» ma ben avvertibile. E a che cosa si pensa dopo un po’, dopo che ci si è chiesti «ma dove l’ho sentito questo ondeggiare scandito con il corredo di fischietti, suoni di strada sardonici o tenui o flessuosi»? Ecco che si fa luce la risposta: l’Art Ensemble of Chicago è il modello, anzi no, non diminuiamo Stanczyk: il possibie modello, l’eco di un innamoramento musicale. E infatti dall’angolo più lontano ci sembra di sentire proprio lui, ma sì, è Lester Bowie con la sua tromba di quando sapeva essere accattivante e «decostruttivo» nello stesso tempo. La Biennale Musica 2015 si presenta con una certa voglia di happening o, comunque, di musica non disciplinare.

Altra musica, ma buona assai, con Fabio Nieder, triestino di stanza in Germania. Il suo brano Zerissener Faden/Knäuel per viola, flauto basso, clarinetto basso, tuba e percussione è in prima assoluta. Una prima importante. La scrittura è classica in un clima che sembra misterioso. La proiezione del piacere di far musica è qui tutta sui timbri e sugli intimi, meditati, trattenuti sviluppi melodici. Il privilegio del grave è evidente. C’è attenzione e cura nella costruzione dell’opera. Si pensa a una musica che si collega alla «cultura della crisi», forse al ‘900 viennese. Arte che si sente dentro a un’epoca di passaggio, di esplorazione sofferta dell’anima.

Bravi gli strumentisti di Musikfabrik con Nieder. Temerari nell’affrontare con l’organico del quartetto d’archi canonico il capolavoro di Helmut Lachenmann intitolato Grido, scritto tra il 2000 e il 2001. Nella prima parte suoni vitrei in sovracuto, in pianissimo, suoni che sono fili sottili pronti a spezzarsi. Ma niente di etereo, piuttosto un muoversi in una regione estrema della ragione. Voto agli esecutori: 7. Del Luciano Berio di Naturale (1985) per viola e percussione con voce di cantastorie siciliano registrata che dire? Gli elementi folk sono lì, non se ne ascolta un trattamento interessante. Le melodie sono bellissime. Di memoria (il tema, articolato, del festival) ce n’è anche troppa.