Umberto Boccioni morì nei pressi di Verona il 17 agosto del 1916. È passato un secolo dalla sua scomparsa e a Milano, la città dove scelse di vivere nel 1907, gli viene dedicata una mostra: Umberto Boccioni (1882-1916) Genio e Memoria, a cura di Francesca Rossi e Agostino Contò, a Palazzo Reale fino al 10 luglio.

I curatori la definiscono non un’esposizione celebrativa, ma una «mostra di ricerca e di strumenti di studio». Nelle sale di Palazzo Reale si raccolgono infatti i risultati di un progetto scientifico cominciato con il riordino di un fondo archivistico della Biblioteca Civica di Verona. Tra queste carte è emerso un album composto da ventidue grandi tavole fascicolate sulle quali sono incollati duecentosedici ritagli con riproduzioni di opere d’arte.

La curatrice della mostra paragona l’album di Boccioni a Mnemosyne, l’atlante enciclopedico creato dallo storico dell’arte Aby Warburg: un incastro complesso di immagini di opere antiche e moderne accostate per dimostrare la persistenza nella memoria collettiva di Pathosformeln, cioè forme archetipiche connesse all’espressione delle emozioni umane. Il repertorio di Boccioni contiene però illustrazioni utili all’applicazione pratica, quotidiana, alla pittura e al disegno, con associazioni più o meno consapevoli che nulla hanno a che vedere con le ricerche di «psicologia storica» di Warburg. Questo gioco di richiami forzati, di sicuro pretenziosi, si materializza nella prima sala dell’esposizione in un sarcofago del II secolo con le Muse, figlie di Mnemosýne (Memoria), che insegnano le arti agli uomini, proveniente dal Museo Archeologico di Siena e del quale Boccioni conservava una riproduzione.

Le opere nelle sale di Palazzo Reale emergono quindi dal cosiddetto Atlante della memoria, che funge da fragile impalcatura per tutta la mostra. Alcune delle illustrazioni attaccate sui grandi fogli di carta interamente riprodotti nel catalogo Electa (pp. 304, euro 34,00) hanno una relazione con le vicende raccontate nei Diari scritti tra 1907 e 1908; altre, come il rilievo di Siena, il Massimiliano I di Ambrogio De Predis, la Fiorentina di Franz von Stuck, le Giovani donne del preraffaellita Frederic Leighton – per stare alle presenze più inspiegabili – non hanno legami dichiarati né immediati con il lavoro dell’artista. Spiace che il catalogo, per chiarire alcuni di questi nessi oscuri, e per giustificare il prestito di queste opere, con spostamenti che hanno avuto un costo, non solo economico, rimandi a una pubblicazione che vedrà la luce solo nelle prossime settimane: sono dati che, se ci sono, avrebbero fatto comodo da subito.

Sembra poi che le numerose prove di stampa utilizzate nell’Atlante arrivino a Boccioni da Gabriele Chiattone, il litografo, pittore e imprenditore con cui Umberto collabora tra 1907 e 1909. Si spiegano così la presenza di immagini tratte dalla rivista d’arte «Emporium» – alla quale Chiattone lavora già dal 1895 –, ma anche alcune emergenze più singolari come, ad esempio, quella che in catalogo è registrata con un laconico «Annunciazione»: è invece la fotografia di un affresco quattrocentesco in Santa Caterina di Corlazzo a Traona, una piccola chiesa nascosta tra i filari di viti della Valtellina, tratta da una guida turistica che dovette essere familiare al ticinese Chiattone, più che a Boccioni.

L’eclettico litografo svizzero ha interessi multiformi e disordinati per l’arte antica: in un suo disegno con una cantoria neo-rinascimentale esposto nella quarta sala, fa tenere a un putto preso a prestito dall’Altare del Santo di Donatello la Pace di Chiavenna, un capolavoro di oreficeria medievale; ad altri angeli mette tra le mani ostensori e reliquiari comaschi cinque e seicenteschi, in una mescolanza di forme e stili che coincide – fin troppo bene – con le associazioni dell’Atlante. A differenza di Chiattone il giovane Boccioni non interpreterà mai in modo altrettanto passivo l’arte antica, selezionandone piuttosto gli aspetti utili al proprio lavoro. Di Luini e di Ghiberti gli interessano, per esempio, lucertole, frutti e uccelli, cioè «quella religiosa osservazione di particolari, quella meravigliosa unione di vero e d’ideale», come annota nel diario. Stando alla logica dei curatori, a Campagna lombarda – un quadro del 1908, conservato a Lugano, pieno di dettagli, farfalle e lumache comprese, esposto nella seconda sala accanto ai disegni preparatori – si sarebbe dovuto accostare allora uno dei rilievi, brulicanti di animaletti, della porta del Paradiso di Ghiberti?

I dipinti di Bellini sarebbero fonti visive così come La vecchia dell’americano Richard Miller, le incisioni di Redon, Dürer, Klinger e Munch, e le opere simboliste viste a più riprese alle Biennali veneziane. Insomma, a venticinque anni Boccioni aveva una naturale sete di spunti che tenacemente cercava ovunque, nel presente e nel passato, in Italia e fuori, magari aggiornandosi sulle riviste come l’austriaca «Die Graphischen Künste» o la tedesca «Pan».

A dimostrarlo, bastava uno sguardo filologicamente attrezzato, come in alcuni dei saggi in catalogo; non c’era veramente bisogno di convocare nelle sale opere che, in alcuni casi, non sono state viste dal vero nemmeno da Boccioni. Così, sembra di andar dietro, senza contestualizzarli, ai commenti malevoli di Carrà, 1914: «solo quattro anni fa egli amava più Klimt che Renoir in pittura – amava i preraffaelliti e non capiva affatto i grandi impressionisti e nemmeno i post Matisse e Picasso».

Al divisionismo Boccioni arrivava, come tanti altri artisti della sua generazione, per il richiamo esercitato dalla galleria Grubicy. Nello spazio di via Cairoli erano esposte le opere dei beniamini di Umberto, Previati e Segantini, entrambi citati, insieme a Medardo Rosso, nel Manifesto dei pittori futuristi del ’10, perché «non può sussistere pittura senza divisionismo». Gli effetti di questa passione si misurano nell’ampiezza della tastiera cromatica di Boccioni, nella quale si inserisce, come graffi tra le strisce di colore, la luce naturale: nel Romanzo di una cucitrice della Collezione Barilla o nel bellissimo Autoritratto di Brera, entrambi del 1908. Boccioni è già sulla via delle sperimentazioni successive; in questo momento smette di aggiungere immagini all’Atlante e per fortuna anche la mostra, come la vita dell’artista, cambia.

Il caleidoscopio divisionista in pochi mesi esorbita e tra 1909 e 1910 esplode in fiammate di colori sulfurei, come schizzati da un altoforno. La metamorfosi, che coincide con la nascita del futurismo e la frequentazione di Marinetti, diventa evidente nella settima sala con opere come Forze di una strada del Museum of Art di Osaka. Il tram al centro del quadro corre spaventosamente in bilico tra ombre, biciclette e persone che «stanno ferme e si muovono; vanno e vengono, rimbalzano sulla strada»; coincide con quello descritto nel Manifesto tecnico della pittura futurista. I sensi sono quindi coinvolti in un mutamento percettivo che segue il passo delle novità tecniche e scientifiche. In questa dimensione progressista il dinamismo è la chiave espressiva per trasporre l’energia vitale del cambiamento in immagini. Lo si vede nelle ultime sale dell’esposizione e nel rapporto tra pittura e scultura, in opere iconiche come Elasticità e Materia o nell’unica sua scultura sicuramente nota a tutti gli italiani: Forme uniche della continuità nello spazio. Di tutte queste opere sarebbe stato utile avere, in catalogo, delle schede: si sarebbero così forse evitate, grazie a qualche controllo in più, le incoerenze tra didascalie, pannelli e saggi sulla cronologia, sulle tecniche, sui titoli. Perché intitolare Campagna lombarda 1908 un dipinto che reca scritto «Padova 1903»?

Gli ultimi anni di vita di Boccioni sono spesi tra ricerche ancora nuove, un interventismo spinto e il confronto, a volte schiacciante, con le novità delle Demoiselles d’Avignon e del cubismo. Nella primavera del ’14 scrive a Roberto Longhi: «Bisogna spazzar via Picasso i suoi umili oggetti da sperimentatore. Invece tutti s’influenzano di pipe di bottiglie di chitarre di bicchieri. Basta!». Avrà pensato almeno ad Ardengo Soffici, di stanza a Parigi… ma poco dopo anche Boccioni cederà alle novità dirimenti inventate dal grande spagnolo, rilanciando un’intuizione già presente nel Manifesto del movimento: le opere futuriste devono essere brutali, aggressive, esprimere veemenza. Chi può essere in quel momento più urtante di Picasso, con le sue ricerche sull’arte africana, con la violenza dei tagli nei collage polimaterici, con un cubismo sempre più astratto e ineloquente?

Infine, nel ’16, Carrà esce dal movimento e Boccioni corregge il tiro. Tra un impegno militare e l’altro, prima di morire, riscopre Cézanne.

Arrivati in fondo, resta l’impressione che tutto il materiale esposto sia accumulato nelle sale con una totale mancanza di gerarchia: tra riproduzioni, copie, originali, documenti, disegni, fotografie, tutto sembra in attesa di un riordino. L’allestimento peggiora le cose rendendo la mostra un palinsesto, tra chiodi che sporgono, legno lasciato nudo come quello degli imballi o laccato o ricoperto di juta con accostamenti cromatici e materici improbabili.

Di tutti questi richiami al passato, che oggi ci interessano tanto, e di questo Atlante squadernato con gusto voyeuristico, il Boccioni futurista si sarebbe forse vergognato, mentre Marinetti, genio di retorica, avrebbe risolto così: «Boccioni non fu deformato da nessuno, non fu mai un nostalgico, un pensieroso, un debole. Fu per molti anni compresso dalla più tragica miseria e dall’ambiente artistico il più tradizionale e il più ammuffito. Spaccò tutti e due con una acutissima gomitata di montagna in terremoto sfondando il basso cielo plumbeo dell’arte italiana».