Come nella leggenda dell’Ebreo errante, Nitzan sembra condannata a girare senza meta, in cerca di un approdo che non esiste. Neanche ventenne lascia la sua città natale, Tel Aviv, per dirigersi a Tokyo in cerca di fortuna, ma è solo l’inizio di una lunga serie di viaggi e spostamenti che la condurranno anche in Italia, in Germania, negli Stati uniti e di nuovo in Israele.

Per oltre dieci anni il suo girovagare in cerca di se stessa e della felicità viene documentato nel film Boi – Song of a Wanderer (che verrà presentato nei prossimi giorni nel concorso internazionale di documentari al Torino Film Festival) dalla regista olandese Anne Marie Borsboom, che conosce Nitzan ad Amsterdam nel 2003, poco prima della sua partenza per il Giappone.

«I soggetti dei miei film sono esclusivamente donne – dice la regista, che per il suo prossimo documentario pensa alla prima «gondoliera» della storia, Giorgia Boscolo – perché ritengo che esistano già abbastanza filmmaker uomini che fanno film su altri uomini».
Dopo sei anni di lavoro sul documentario però Nitzan, che Borsboom conosce come «una bellissima ragazza lesbica», chiama l’amica regista per comunicarle di non sapere più chi è: «Mi ha detto che non si sentiva né donna né uomo».

Inizia così il suo percorso di transizione che la porta a diventare un ragazzo, trovando nel suo corpo il senso di tanto girovagare in cerca di una nuova «patria». Partita da Israele, dove la vediamo circondata da amici e parenti che parlano solo di paura, bombe e guerra, approda alla sua nuova identità di genere in una città – New York – dove, ormai uomo, viene accolto dalla comunità ebraica e ristabilisce un contatto con le sue radici e con la madre, una delle figure più intensamente presenti nel film anche se sempre fuori campo. «La mamma di Nitzan ha sempre rifiutato di farsi riprendere», spiega infatti Borsboom.

Lo spostamento senza sosta da un luogo all’altro e la vita interiore del protagonista – che la regista paragona al «viaggio» di quattro secoli dell’Orlando di Virgina Woolf, che attraversa il mondo così come l’identità maschile e femminile – vengono testimoniati dal film di Borsboom e da Nitzan stesso,che fin dall’adolescenza scatta con la sua inseparabile macchina fotografica una miriade di autoritratti, fermi immagine di un’identità irrequieta, oggi raccolti in un libro realizzato anch’esso insieme a Borsboom.

Come è nata l’idea di fare un film su Nitzan?
Dopo che ci siamo conosciute in un night-club di Amsterdam siamo rimaste in contatto via mail, e tutto ciò che mi scriveva sembrava la scena di un film. Così, nonostante in un primo momento non avessi trovato nessuno disposto a finanziare il documentario, sono andata a trovarla a Tokyo e tutto ha avuto inizio.

All’epoca non si parlava ancora del futuro cambiamento di sesso, cosa rappresentava quindi per lei la storia di questa ragazza?
Sin da subito l’ho vista come una sorta di incarnazione di Pippi Calzelunghe: una persona intenzionata a conquistare il mondo e trovare il posto in cui essere felice, una sorta di «patria dell’anima». Dopo sei anni che la seguivo però era sempre più profondamente infelice e a me dispiaceva molto: dopotutto non era la Pippi Calzelunghe che avevo immaginato, il mio documentario non avrebbe avuto un happy end. Così ho iniziato il montaggio, dato che ormai pensavo che il film fosse concluso. All’epoca, non a caso, il titolo che avevo in mente era The Wandering Jew, l’ebrea errante.Poi, a montaggio quasi finito, Nitzan mi ha chiamata per dirmi che aveva deciso di cambiare sesso.
Il lavoro sul documentario è andato avanti ancora per anni da quel momento.Dopo la chiamata di Nitzan sapevo che in quanto documentarista dovevo tornare a filmare, era necessario mandare a monte tutto quello che avevo fatto sino ad allora. Non immaginavo cosa sarebbe successo ma ero consapevole che sarebbero serviti ancora anni di lavoro. Ripensandoci a film finito per me Boi racconta la stessa storia che mi ero immaginata al principio: la ricerca della felicità e di se stessi, più che la vicenda di una persona transgender.

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Il punto di partenza di questa ricerca è Israele, un paese dal quale Nitzan appare da subito «disconnessa».
Il punto in cui ha inizio il viaggio di formazione di Nitzan avrebbe potuto essere qualunque paese, ma non è indifferente che la sua prima fuga avvenga da Israele proprio nel periodo in cui era in corso la seconda Intifada. Un luogo in cui si trovava circondato dalla paura e dalla distruzione, dove la religione – come mi ha detto lui stesso – viene usata in modo improprio e in cui non riusciva a rispecchiarsi. Non ha lo stesso valore che lasciare un altro paese, in cui si può vivere una vita «normale».

Nitzan si riavvicina alla madre proprio quando decide di diventare un ragazzo.
Per lui la madre è sempre stata fondamentale, e infatti nel film ne parla continuamente. In qualche modo rappresenta anche la nostalgia di casa, del suo paese. All’inizio del film mostro i nostri tentativi di metterci in contatto con lei, che rifiuta e che per anni non ha voluto avere contatti neanche con Nitzan. La cosa sorprendente è che il loro rapporto è rinato proprio in coincidenza della transizione di genere: quando sua figlia è diventata un figlio.

Parallelamente si riavvicina anche alle sue radici ebraiche.
Inizialmente pensavo che le sue radici non avrebbero avuto molto rilevo nel film, dato che Nitzan abbandona molto presto Israele. Ma alla fine si sono rivelate una componente essenziale della storia: Nitzan approda alla sua identità in un movimento circolare che lo riavvicina anche al punto di partenza, la madre e il posto in cui è nato.