«Sono nato nel ventesimo secolo in Europa e sono diventato un artista, ma avrei potuto essere uno sciamano in America del Sud o uno stregone in Africa. I nostri mestieri si assomigliano, ma solo che per chi è religioso esiste una risposta». Christian Boltanski, quando parla, fa risuonare i suoi pensieri in mondi lontani, riconducendo lo spettatore lungo sentieri ancestrali, dove l’individuo non è più una monade impazzita nella sua solitudine, ma una presenza universale, legata da un filo invisibile ma robusto alle generazioni precedenti e a quelle che verranno.

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Christian Boltanski

Come un rabdomante che fiuta le tracce umane, Boltanski ha allestito nel deserto di Atacama in Cile il suo Animitas (il video dell’installazione è presente alla Biennale di Venezia) dove trecento campanelle mosse dal vento suonano una musica che lui definisce «celestiale», perché in uno dei luoghi della natura più aridi della terra, «il cielo è molto presente, si possono vedere le stelle e farsi un’idea dell’infinito». C’è di più: lì, tra quei sassi e in quel paesaggio brullo Pinochet lasciò morire centinaia di desaparecidos. I parenti ancora cercano i loro resti, camminando avvolti dall’arsura e Boltanski li intercetta, si rende partecipe e testimone, sovrapponendo simbolicamente ai loro passi incerti una sua cartografia sentimentale – le campanelle sono posizionate a disegnare la mappa della costellazione al momento della sua venuta al mondo.

Oltre l’assenza

L’artista francese, nato a Parigi nel 1944, secondo figlio di un padre ebreo di origine ucraina, medico di professione, e di una madre corsa, venne concepito quasi clandestinamente, durante una falsa «assenza» paterna (per sopravvivere ai rastrellamenti nazisti, si doveva nascondere in una specie di cantina di rue Grenelle, dove la famiglia abitava). Da qui in poi, Christian sarà ossessionato dal tema dell’assenza e lotterà tutta la vita contro la «mancanza», ostinandosi nel tentativo di fermare il tempo. Il suo compito titanico è far riaffiorare una moltitudine di simulacri, riconsegnando una identità (anche fittizia) a chi è disperso, svanito nelle turbolenze della Storia.

Coerentemente alla sua ricerca esistenziale e alla sua capacità di trasformare ogni oggetto appartenuto a qualcuno non in una reliquia ma in una parvenza reale, compiendo un furto ai danni del tempo che sbocconcella e consuma anche i ricordi, Boltanski ha accettato il folle progetto dell’australiano David Walsh che, nella sua «Disneyland sovversiva per adulti» (il museo Mona in Tasmania) dove figurano lavori escrementizi alla Delvoye, oppure sul sesso e la morte, ha inserito pure lui. Walsh corrisponde all’artista un salario mensile di 2500 dollari e in cambio può mostrare la diretta di The Life of C. B., un Grande Fratello che si svolge per 24 ore dentro allo studio di Malakoff. Christian ama quel luogo perché fuori mano, nascosto ad occhi indiscreti e ci va ogni mattina alle 10 e 30, «a volte – dice – per non fare niente, magari per poi tornare a casa a guardare la tv, perché i tempi della creazione non vengono spesso».

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L’artista è ora in Italia per intrecciare un dialogo immaginario con Mario Merz, presso la Fondazione a lui dedicata di Torino. La mostra (visitabile fino al 31 gennaio 2016), a cura di Claudia Gioia, è una grande installazione site specific, che va sotto il titolo Dopo (après in francese). «Quel titolo significa dopo la morte, ma anche dopo l’oblio: lo spazio è affollato di volti di persone che passeggiano e c’è una macchina che le fa girare, si muovono tutto il tempo, svolazzano intorno a noi… È un’opera che possiamo dividere in due parti: ci sono due livelli alla Fondazione Merz, il pianoterra e il sottosuolo, quindi ho lavorato in maniera differente. Sopra, ho esposto le fotografie che ho utilizzato nel corso della mia vita, rappresentano individui che provengono da mondi diversi: sono tutti già morti, in mezzo ci sono vittime, criminali, esseri malvagi, ma ormai non si sa più chi siano. Per me, sono semplicemente degli spiriti. Nel sottoscala, qualcuno applaude, è come se fosse abitato da fantasmi. Mi ha molto colpito, al funerale di Mario Merz, vedere la gente che applaudiva all’uscita della chiesa, era la prima volta che vivevo quell’esperienza, in Francia non accade, l’ho trovata una cosa molto bella… Così, nella mia mostra, si scende, si ascolta l’applauso e quando si arriva nel sottosuolo, ci si trova all’interno di una sala piena di sculture bianche fatte di scatole cartone, imballate nella plastica. I colori che ci investono, bianco, rosso e blu creano dei riflessi sul cellophane e rimandano a una sorta di cimitero. L’esposizione ha più letture possibili: c’è la morte, con il suo cimitero, l’applauso dei fantasmi, le anime che si elevano e poi spariscono. È come se fossimo dentro una fabbrica: in alto ci sono delle macchine che lavorano e in basso, una riserva di pezzi».

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Per Christian Boltanski essere artista non significa produrre oggetti da contemplare, ma far fronte a questioni antropologiche che tornano a noi da epoche remote e che, in fondo, si ripropongono sempre uguali, da secoli. «L’arte solleva degli interrogativi, ma naturalmente non fornisce le risposte. Agisce spesso attraverso le emozioni, non con le parole. E quelle domande che fa circolare non hanno nulla di moderno, sono antiche e si ritrovano in tutte le culture. Mi è capitato di parlare con uno sciamano di un villaggio e di sentirmi vicinissimo al suo modo di ricercare. Abbiamo un sapere da tramandare, qualcosa da preservare».

Il cuore pulsante

Per questo, forse, Boltanski in ogni sua installazione si batte come un leone contro il tempo che avanza, contro la ruspa della sparizione. Sull’isola giapponese di Teshima ha raccolto negli anni più di centoventimila battiti del cuore di persone anonime. Nato nel 2008 ed emigrato nel bel mezzo del Pacifico nel 2010, è un immenso, potentissimo archivio che resiste alla dispersione. «Qualcuno dei battiti registrati appartiene a individui che sono ormai morti, eppure lì si avverte ancora la loro presenza, è un po’ come leggere l’inizio di un libro per scoprire la sua trama».
Non è un caso, dunque, che quell’isola sia divenuta mèta di un pellegrinaggio della nostalgia. Eppure, spiega ancora l’artista, la sua intenzione non era quella di costruire un monumento dell’umanità, ma rispondeva invece all’idea di «far esistere i miti sulla terra. Si può ascoltare il cuore di Madame X e di centinaia di migliaia di altri esseri che sono spariti. Non importa il luogo, non c’è bisogno di andare nel deserto di Atacama o in Giappone: basta sapere che laggiù è custodito l’incipit di una narrazione, è qualcosa di profondamente reale». È la testimonianza del proprio «esserci stati», aver attraversato questo mondo. Anche il museo della Memoria di Ustica realizzato a Bologna intorno al relitto dell’aereo abbattuto porta in sé lo stesso segno: le 81 vittime di quella strage del cielo sono «ritratte» da altrettante luci che si accendono e spengono, simulando il ritmo del respiro. E, intorno alla carcassa del velivolo, 81 altoparlanti mandano in onda frasi sussurrate, un vocìo indistinto di pensieri che toccano temi quotidiani e universali, tessendo una ragnatela emozionale della tragedia.

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In fondo, è lo stesso procedimento che l’artista intraprende quando si avvicina alla Shoah. È materiale scottante, che non entra mai direttamente – per via tautologica – nel suo lavoro, eppure aleggia sempre, si intuisce in molti di quegli anti-monumenti per morti ignoti che Boltanski va costruendo in giro per i musei del mondo. «Nella mia vita – confessa l’artista francese – la Shoah ha rappresentato un tema forte. Credo che nella vita di un artista, al principio, c’è quasi sempre un trauma. Fin da bambino ho ascoltato storie sulla Shoah, da parte dei miei genitori e parenti che erano sopravvissuti. E le questioni che sollevavano tutti quei racconti erano universali, come la perdita d’identità e la sparizione. Mi interessava molto anche la scelta del caso: perché alcuni erano riusciti a scampare all’orrore e a vivere e altri no? Le mie opere riguardano il caso, la fortuna, il destino…».

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Fratello di Luc Boltanski, celebre sociologo, Christian afferma di incontrarsi e parlare spesso con lui. Ad avvicinarli è stato anche il teatro, la pièce però poi l’ha scritta Luc e lui dice di aver solo collaborato con uno scambio di opinioni e consigli. Eppure il teatro è molto presente nella produzione di questo artista, affondando le sue radici nelle ombre. «Da giovane ero interessato alla tradizione della danza macabra, volevo realizzare qualcosa per i bambini che parlasse di fantasmi gentili. Il teatro delle ombre era un sortilegio, un andare alla ricerca del tempo perduto, un progetto per immagini che ricordava le creazioni delle lanterne magiche». Ancora una volta, una pratica sciamanica.

 

 

Scheda

A Torino vale la pena fare un tour. Fino a domenica 8, ci sarà Artissima, una delle più importanti fiere internazionali dell’arte contemporanea, guidata da Sarah Cosulich. Nei 20mila mq di esposizione all’Oval del Lingotto, hanno affittato il loro stand 207 gallerie provenienti da 35 paesi, una ventina di istituzioni e altrettante riviste d’arte. Alla Gam c’è poi Monet che arriva direttamente dal Musée d’Orsay parigino e si è appena aperta la mostra «Bora» di Yuri Ancarani, videomaker invitato con un suo progetto per l’iniziativa «Museo chiama artista». Poco fuori città, invece, al Castello di Rivoli, è in corso la personale di Francesco Jodice, dal titolo «American recordings», a cura di Massimo Melotti (fino al 10 gennaio 2016). Per la Sala Multimediale della Manica Lunga – che consente una proiezione simultanea sincrona o asincrona su cinque megaschermi – l’artista ha ideato l’installazione «American recordings», 2015 (20’), una sinfonia narrante per immagini, un film completo grazie al quale Francesco Jodice percorre il XX secolo con miti ed eroi made in Usa, quelli che hanno popolato l’immaginario collettivo di diverse generazioni. Si va dall’ultimo discorso del presidente Eisenhower alla nazione sulla minaccia della corsa agli armamenti, alle immagini degli esperimenti nucleari, dalla nascita del genere horror con «Texas Chainsaw Massacre» a «End of the Century», film-documentario sulla band punk Ramones.