C’è stato un momento, negli anni quaranta del Novecento, in cui Pierre Bonnard, già capofila dei Nabis, profeti, alla fine del secolo precedente, fu giudicato profeta dell’astrattismo. Perfino un cubista della prima ora, poi rientrato nei ranghi del classicismo, come André Lhote, parlava di Bonnard in termini di astrattismo, e Pierre Bonnard and abstraction si intitolava, subito dopo la morte dell’artista nel 1947, un saggio del critico inglese Patrick Heron. Nel clima dell’espressionismo astratto americano si cercava di allargare il canone della modernità, non, come sarebbe avvenuto più tardi, sostenendo che si può essere moderni senza un aggancio sistematico alle linee prospettate dalle avanguardie storiche, ma facendo confluire in queste linee esperienze artistiche tutt’altre. Anche Jean Clair, il più tenace propugnatore di un altro Novecento, si chiedeva ancora nel 1984, curando la storica mostra di Bonnard al Centre Pompidou, se, a proposito della stagione finale dell’artista, si dovesse parlare di «abstraction» o di «figuration nouvelle». Vero è che il suo ragionamento, basato sulla considerazione di una perdita di centro nella tela, e di una conseguente presa di statuto delle aree periferiche (venivano tirati in ballo i nomi di Sam Francis, Morris Louis e Jules Olitski), si basava innanzitutto su una chiave di lettura fisiologica e psicologico-percettiva: Les aventures du nerf optique, questo, citando proprio un nota di Bonnard, il titolo del suo saggio.
Pur rappresentando un’alterità, Bonnard ha piena cittadinanza nel Moderno, e del resto questa alterità non implica l’assenza di legami con alcuni moderni ideologicamente consacrati, come Matisse. In questo ordine di idee si è mosso Guy Cogeval, presidente del Musée d’Orsay, nel concepire, insieme a Isabelle Cahn, la meravigliosa mostra Pierre Bonnard Peindre l’Arcadie, che dopo la tappa primavera-estate appunto al d’Orsay (dove noi l’abbiamo vista) e quella autunno-inverno di Madrid, Foundacion MAPFRE, si trasferisce, dal 6 febbraio al 15 maggio, a San Francisco, Fine Arts Museums. «Dipingere l’Arcadia» è affermazione rivendicativa: anche nel Novecento delle frontiere aperte (ogni avanguardia apre le frontiere) si dà la possibilità dell’hortus conclusus, della coltivazione solitaria, se non solipsistica, di un paradiso in terra. In questo senso, la critica bonnardiana, più che recidere il rapporto del pittore con le sue origini, come si è studiata di fare nel dopoguerra, ha l’obbligo di ritrovare lì, nel sintetismo che a partire da Gauguin e dai giapponesi nutrì le ricerche e le aspettative dei Nabis, il cuore del problema. Alla morte di Bonnard, Roberto Longhi, nel suo epicedio, non mancò di sottolineare, in nome di una storia dell’arte orientata dalla discriminante naturalistica, l’importanza cruciale, nel suo percorso, del recupero dei padri impressionisti, verso, circa, il 1910. Per Longhi ammettere Bonnard nel Novecento significava tagliare via, in un certo senso, la prima parte della sua carriera, considerata caduca: solo l’impressionismo, riemerso nel momento in cui l’esperienza dei Nabis poteva dirsi conclusa, aveva potuto ‘salvare’ Bonnard, trarlo fuori dal cul-de-sac in cui si erano cacciati, secondo lui, quei profeti dell’arte per l’arte. Salvo poi citare, non primo né ultimo, il nome di Proust, per spiegare la durata sentimentale dei quadri di Bonnard, il deposito di memoria che essi rappresentano: un misticismo estetico che ha poco a che fare con la bruciante sensorialità del plein air impressionista, e molto, invece, con la cultura supremamente formale dei compagni di giovinezza all’Académie Julian: Vuillard, Denis, Roussel, Sérusier.
Questo impressionismo dopo Proust del Bonnard ‘secondo’ va dunque riconsiderato alla luce della stagione nabie, ed è quello che fa la mostra di Cogeval, con la sua articolazione per spaccati tematici e tipologici, che mischiando la cronologia avvantaggia la visione unitaria dell’artista. Poi, al contrario che nella mostra del 2006 alla Ville de Paris, dove la progressione temporale su fondo bianco ghiaccio sbilanciava un po’ troppo Bonnard, isolato, verso il futuro, alla Gare de Lyon (non so dei nuovi allestimenti) si aveva ben più chiara la certezza che è proprio dagli esperimenti sulla pittura di superficie e la sua ricodificazione antiprospettica dello spazio condotti comunitariamente dai Nabis nell’ultimo decennio dell’Ottocento che si realizza un significativo avanzamento verso la visione ‘moderna’: meno producente, forse, di quanto non siano stati i ‘punti’ di Seurat o i ‘passaggi’ di Cézanne ma altrettanto degna di significanza storica.
Ragionando: quando il loico André Derain comincia ad avvertire, già prima della Grande Guerra, i rischi di involuzione decorativa del cubismo (si parla, a proposito di una certa fase del cubismo sintetico, di nuovo rococo), e si avvia nel recupero della grande tradizione gotica francese per dare sostanza organica al suo ritorno all’ordine ante litteram, Bonnard, che ha riscoperto l’impressionismo (nel 1912 frequenta Monet a Giverny), cerca di capire come conciliare il ritrovato contatto con la natura, e la dispersività in esso implicita, con l’esigenza storica, che diverrà ancora più storica dopo il massacro 1914-’18, di costrutto e permanenza del visibile. Così, mentre effonde chiarità luminosa e spazio atmosferico, si ingegna via via di fornire a queste novità un ‘inquadramento’, di contenerle entro composizioni più geometriche, utilizzando le spezzature diagonali e l’espediente matissiano della finestra aperta. Questa dialettica che Bonnard viene a creare nella sua nuova stagione novecentesca è divenuta ormai, per la critica, chiave imprescindibile. Eppure, per quanto egli si sforzi di ‘inquadrare’, non si può certo parlare di sottomissione a un preciso clima storico, né, prima della guerra, cubistico, né, dopo, rappel à l’ordre. In realtà egli trascorre senza rotture particolari dalla prima alla seconda maniera perché resta viva la lezione nabie, che gli aveva insegnato, su base giapponese (Bonnard era stato denominato Nabi très japonard), come ogni seduzione ottica necessitasse di un contrappeso stilistico, come le ricerche sul colore potessero trovare plausibilità solo all’interno di un’immagine ritmata dall’uso inventivo e spregiudicato delle linee, fino all’arabesco. Basta leggere gli scritti teorici di Maurice Denis per rendersi conto di come il problema centrale del post-impressionismo, compresi i campioni di stile che furono i Nabis, non fosse negare le scoperte ottiche di Monet, ma sostanziarle ‘artisticamente’, trasformarle in un vocabolario per il mondo nuovo.
Il maggior merito critico di una mostra come questa di Bonnard è di leggere in modo meno preconcetto i termini posti dall’arte francese fin-de-siécle, di complicare un po’ lo schema che vede le due linee complementari divisionismo-Fauves e Cézanne-cubismo all’origine della pittura del Novecento. Non solo, come in Seurat e Signac (e in Cross, che è stato importante per Matisse), la conquista di autonomia del colore puro che darà luogo a tutti gli espressionismi; non solo, come in Cézanne, la natura recuperata, dopo… Antonello da Messina, nella sua geometrica strutturalità, per annunciare al secolo nuovo l’ordine e la permanenza della cosa vista. Il caso-Bonnard, non da oggi, rimescola le carte. Nel catalogo della mostra (un catalogo, edizioni Museé d’Orsay-Hazan, che va segnalato anche, rarità!, per il solido gusto tipografico: l’ariosità dell’impaginato, la certezza delle riproduzioni fotografiche, la monumentalità fantasiosa dei caratteri dei titoli), Cogeval definisce il pittore di Fontanay-aux-Roses «chat à sept vies», con riferimento ai suoi diversi scatti di rinnovamento: periodizzare l’iter di Bonnard, come invita a fare Cogeval in alternativa a una tradizione critica che lo ha considerato (così Antoine Terrasse, cui è dedicata la mostra) «un grand tout», aiuta certo a definire meglio le diverse aree di influenza: quanto agli esordi, non è del tutto chiaro, per esempio, in che rapporto si pone il laico e ironico Bonnard con il ramo della cultura nabie più connesso all’esoterismo della scuola di Gauguin (Cogeval mette in un certo rilievo la figura di Paul Ranson); e il simbolismo propriamente detto? Le pallide cadenzature di Puvis, i sogni ‘veri’ di Redon, come agirono sull’agile fantasia del giovane Bonnard, sempre in cerca di una quotidianità da bloccare affettuosamente, da ‘tagliare’ come in un fotogramma? Nel progresso degli anni diverse altre influenze registra il suo mondo, senza mai esserne scosso ma solo arricchito. Resta il «grand tout», la stringente consequenzialità stilistica: un grande olio datato 1912, La Place de Clichy (proprietà del Pompidou), documenta come in Bonnard il nascere della nuova maniera «impressionista» debba fare i conti con il sistema visivo su cui egli si era formato. La luce è aperta, circola aria, è riguadagnata discretamente la prospettiva: gli ingredienti che animeranno la lunga teoria dei paesaggi del Midi ci sono già tutti. Ma le figure sono pur sempre costruite a ritaglio, e isolate, come in una xilografia di Kiyonaga, così che l’azione, sul punto di essere restituita nella sua immediatezza e valorizzata realisticamente, si arresta nell’immaterialità di un ornamento quasi da arazzo: un arazzo urbano. È proprio questa collisione fra prensilità ottica e richiamo prepotente dello stile che spiega il proustismo di Bonnard, la sua propensione a fare del tempo presente un tempo già perduto, che chiede di essere tenuto in vita dalla memoria (di qui discende anche, evidentemente, la possibilità della moderna Arcadia su cui punta Cogeval). Anche Seurat aveva perseguito questa strada, ma il risultato del suo procedimento scientifico era stato monumentalizzare il presente: una specie di Puvis de Chavannes con la retina a posto. In Bonnard il margine fra percezione e memoria risulta talmente sottile che niente di sostanziale, in entrambi i sensi, ne viene davvero sacrificato. La presa di possesso della durata sentimentale gli giunge, in particolare, dall’uso calligrafico, fra molte virgolette, del colore: e questo anche è un portato del sintetismo fin-dé-siecle. Egli dipinge come se stesse disegnando, e del resto lo stesso disegno preparatorio, a volte, resta visibile, nel modo «tormentato» a lui proprio, come nel celebre Autoritratto del ’30 che sembra un Giacometti, più che Chardin. Il colore in Bonnard è sempre rovello e lavorìo, egli gioca in modo miope, minimo, laborioso da ape, sui passaggi di tono, smangia così i margini delle forme, che si aprono di continuo, proliferanti, dal che l’effetto complessivo di fuori fuoco, di alone luminescente: giallo ocra o limone, grigio perla, verdi, si trattava di edificare una parete di luce, oltre la quale la vita sembrasse ancora viva.