All’indomani della pubblicazione delle sue principali opere, sul finire del XVI secolo, Giovanni Botero venne acclamato, poi variamente ripreso, e infine tradotto in tutta Europa: in particolare, Della ragion di stato, la sua opera maggiore, fu più volte ristampata ed ebbe edizioni latine, spagnole, francesi, tedesche, con una diffusione enorme, paragonabile solo a quella della Gerusalemme liberata. Tuttavia, la sua altalenante fortuna induce a pensare.
Nel Settecento, infatti, venne dimenticato e nell’Ottocento la storiografia liberale di ispirazione nazionalistica espresse verso di lui una aperta ostilità; Giuseppe Ferrari lo bollò come reazionario e Francesco De Sanctis riassunse il giudizio dell’epoca definendo l’opera di Botero una sorta di «codice dei conservatori». Malgrado un parziale recupero successivo, attraverso le ricostruzioni di Croce e di Meinecke, la sua figura rimase tuttavia ancora a lungo in ombra, finché recentemente l’interesse per la trattatistica sulla «ragion di stato» (fiorente nell’Italia della prima metà del XVII secolo) ha condotto a una sua rivalutazione. Ora, l’uscita nell’elegante veste dei «Millenni» dell’edizione critica Della ragion di stato, a cura di Pierre Benedettini e Romain Descendre (Einaudi, pp. LXXVI-430, euro 80, 00) consente una assai opportuna messa a punto delle questioni sollevate da questo pensatore politico.
Se Botero gode di nuove attenzioni il merito è soprattutto di Romain Descendre, autore nel 2009 per l’editore Droz del volume L’état du monde: Giovanni Botero entre raison d’État et géopolitique e attento curatore, oltre che Della ragion di stato, anche di un altro importante testo di Botero, Della cause della grandezza e magnificenza delle città (ora in uscita per l’editore Viella). L’introduzione di Descendre al volume appena edito chiarisce bene come Botero usi l’espressione ragion di stato in un senso diverso dall’accezione corrente – ovvero la possibilità per il potere sovrano di derogare ai vincoli posti dalle leggi di natura e dai precetti divini. Per Botero, invece, essa indica l’insieme delle conoscenze necessarie alla conservazione dello stato. Per certi aspetti il testo si inscrive così nella tradizione degli specula principis, quella trattatistica fiorita sin dall’epoca medievale e diretta a insegnare al principe le virtù necessarie al buon governo. All’epoca di Botero, però, le funzioni dello stato si erano di molto ampliate ed esso era divenuto una macchina burocratica complessa, per il cui funzionamento erano richieste competenze assai eterogenee: non più le tradizionali virtù cavalleresche o la tanto ricercata prudenza, ma approfondite nozioni (di cui Botero offre un vero e proprio catalogo) di storia, diritto, economia, medicina, matematica, architettura.
Filippo II, il grande monarca spagnolo a lui contemporaneo, era noto come el Rey papelista, con riferimento al suo inane tentativo di visionare personalmente tutti i dossier di una monarchia vastissima sulla quale, come vuole l’adagio, «non tramonta mai il sole».
Il principale elemento di attrattiva dell’opera agli occhi dei contemporanei è immediatamente individuabile e sta nel suo realismo. Il tema, così cruciale in Jean Bodin, del fondamento giuridico della sovranità e insomma della legittimità del potere, non è perciò al centro della prospettiva di Botero, che invece si preoccupa dello Stato qual è (monarchico prevalentemente, certo, ma all’occorrenza anche repubblicano) e dei mezzi per conservarlo nella sua essenza, quella di un «dominio fermo sovra popoli». L’aggettivo «fermo» non è causale: egli scorge infatti lucidamente la minaccia che attenta le fondamenta dei regimi dell’epoca, e cioè la divisione religiosa prodotta dal diffondersi della Riforma.
Il lavoro di segretario a fianco di Carlo Borromeo a Milano, gli anni trascorsi in Curia a Roma al seguito del cardinale Federico Borromeo (di cui era stato precettore) e soprattutto la missione diplomatica in Francia, compiuta per conto di Carlo Emanuele I di Savoia nel 1585, lo avevano reso consapevole del clima di guerra civile che ormai si respirava in Europa.
In un mondo lacerato, in cui un sovrano come Enrico III di Valois moriva assassinato per le sue scelte politiche e religiose (e ve n’è traccia nella riflessione di Botero laddove dice che il principe il quale «avendo lo stato diviso in due fazioni più per l’una che per l’altra si dichiara», facendosi «capo di parte», abbandona la sua funzione); dove a Parigi insorta – nel 1588 – trionfavano le barricate cattoliche, e in cui l’armata spagnola, supposta «invincibile», si frantumava davanti a quelle coste inglesi che avrebbe dovuto invadere, l’ossessione di Botero per la conservazione e la stabilità era all’epoca ampiamente condivisa. Ma c’è di più: egli cerca con tenacia, sulla scorta di Machiavelli, una lettura oggettiva e veritiera della politica, una visione di come essa è realmente e non di come dovrebbe essere.
Botero risponde così alla diffusa domanda di nuovi modelli interpretativi: perché, come osserva, «girando per le corti non si parla che di Machiavelli e di Tacito». Certo, non condivide la visione positiva che il segretario fiorentino ha del dissenso e perfino di un misurato conflitto politico (recentemente messa in luce dalle ricerche di Gabriele Pedullà sui tumulti); non accetta l’autonomia della politica dalla morale e dalla religione e la larga deroga che questi concede al potere sovrano; e dissente dall’enfasi posta da Machiavelli sull’attivismo in politica estera e sulla centralità del tema della conquista. Ma il suo modo di argomentare si appoggia su una strategia razionale, disincantata, fondata sull’utilità e non sulla dommatica teologica: infatti, «nelle deliberazioni de’ prencipi – scrive – l’interesse è quel che vince ogni partito». E ancora, il principe deve guardarsi dall’ira, non perché essa faccia commettere peccato, ma perché questa passione ostacola una fondamentale arte di governo: la dissimulazione.
Accade così che la religione cattolica venga difesa non solo e non tanto sulla base di argomenti dottrinali ma come potente instrumentum regni: «è di tanta forza la religione nei governi che, senza essa, ogni altro fondamento di stato vacilla». Allontanarsi dalla Chiesa, poi, è per un principe, insinua Botero, un rischio, perché coloro che si schierano per innovare in religione puntano «all’alterazione delle cose, onde nascono congiure, sedizioni e conventicole, cose poco a proposito per il prencipato». Risulta invece conveniente al principe essere percepito dal popolo come pio; e siccome poi chi pio non lo è davvero si tradisce facilmente, allora meglio esserlo convintamente. In breve la religione cristiana è quella che più favorisce i principi, perché «sottomette loro non solamente i corpi e le facoltà de’ sudditi, ma anche gli animi e le coscienze». Allo stesso modo, i luterani e, soprattutto, i calvinisti, sono attaccati non tanto a causa delle loro deviazioni dottrinali ma in quanto «seminano da per tutto zizanie e revoluzioni di stati e rovine di regni»: il loro mestiere è infatti quello di «sedurre i semplici» e di «nudrire le sedizioni», ovverossia «concitare la plebe contra i nobili e i sudditi contra i prencipi».
Di questo asciutto realismo fa parte una disincantata descrizione delle forze che sostengono gli stati: le ricchezze, la popolosità, e, più di tutto, le armi. Da qui la propensione all’analisi geopolitica, a partire da quella – celebre – che contrappone il regno unito, cioè compatto territorialmente (la Francia) a quello disunito, cioè senza continuità territoriale (La Spagna). Doveva risultare davvero profetico Botero, per i lettori del XVII secolo, laddove aveva sostenuto che il regno disunito può competere con quello centralizzato a patto che le varie parti cooperino finanziariamente (e sarà la Unión de las armas di Olivares); ovvero che il regno unito è più suscettibile di subire una rivolta al centro (come la Fronda) mentre quello disunito sarà più esposto alla sedizione delle province (e verranno le insurrezioni di Catalogna e Portogallo). Soprattutto, questi lettori condividevano ormai l’idea che la differenza dei regimi politici si spieghi, come vuole Botero, col clima, con la varietà dei costumi dei popoli e con le loro dominanti passioni. Della ragion di stato chiude così un mondo e ne annuncia un altro, intessuto di aspri conflitti e di ricerca mistica, di scontro ideologico e di profondo disincanto, il Seicento, il cosiddetto «secolo di ferro».