Il giornale messicano La Jornada, dedicava ieri la sua quotidiana Rayuela (una riga di commento sui fatti del giorno) allo scandaloso impeachement brasiliano: «Rousseff non ha rubato un centesimo, ma è stata condannata da un’orda di senatori imputati per delitti di corruzione».

In sintesi, ecco il paradosso brasiliano, il golpe soave andato a segno grazie alle manipolazioni di un sistema democratico profondamente in crisi. E non parlo solo di quello brasiliano.

Nelle sue dichiarazioni a caldo, Dilma Rousseff non ha soltanto accusato coloro che in senato l’hanno condannata – amici, ex amici e nemici- di commettere una grave ingiustizia, ha affermato la sua innocenza e la malafede di chi manipola in maniera truffaldina lo strumento dell’impeachment perché non rispetta il risultato delle urne e ricorre agli inganni, alla corruzione, all’astuzia per ottenere quello che non ha ottenuto nelle tornate elettorali degli ultimi tredici anni.

Le accuse contro di lei sono una goffa acrobazia legale e chi la condanna è indegno di sedere in parlamento, eppure c’è già chi manda gli auguri a Temer, l’infedele vicepresidente e adesso presidente pro tempore, più veloce di tutti Wikipedia che ce lo dà già come facente funzioni.

Dilma ha ricordato che la vita l’ha sottoposta a dure prove, durissime come la tortura, la malattia, ma altrettanto duro è subire un’ingiustizia attribuendo a lei responsabilità che non erano di sua competenza, proprio perché negli anni del suo governo non ha mai accettato ricatti.

La questione, naturalmente, è politica; tutto il resto sono costruzioni bizantine per dare un pallido aspetto di legalità ad un macroscopico attentato alla democrazia, «per imporre il Presidente dei senza voto». Dilma si è espressa con queste parole e, confesso, un brivido mi è corso per la schiena, pensando a come questo sistema cominci a spandersi nel nostro mondo occidentale, a cominciare dall’Italia, e come l’allarme lanciato dalla Presidenta di un attacco alla democrazia non è un mero gesto di difesa, ma un appello al Brasile e al mondo per salvaguardare un principio irrinunciabile.

Dilma è decisa ad affrontare la battaglia dei prossimi mesi; ha ricordato a tutti che la lotta per la democrazia è una lotta permanente, che non ha fine; ha convocato i suoi sostenitori e gli amanti della democrazia a non ripiegare, a dare battaglia con decisione e in pace perché il rischio che corre il Brasile oggi è davvero molto forte.

La questione non riguarda solo quel grande paese sudamericano, la causa brasiliana è la causa di tutti coloro che pensano ancora che la volontà popolare debba essere rispettata e che gli Stati debbano essere amministrati da delegati del popolo fino a prova contraria.

Come d’abitudine, i nostri media trattano uno dei paesi più grandi e importanti del mondo come fosse una repubblica delle banane: vedono la pagliuzza brasiliana e non la trave nostrana, disinformano allegramente mentre i governi non prendono posizione, non esprimono solidarietà a Dilma, accettano il fatto compiuto.

Il democraticissimo Obama che vede nel Venezuela di Maduro un grave pericolo per il suo paese, sorride e tace. In America Latina tutto sta tornando al suo posto. Se prima era la lotta armata a giustificare l’avvento di governi di destra sanguinari in maniera insopportabile, adesso, nella fase di «democratizzazione» dell’America Latina, l’eccesso di Sinistra, le società inclusive, i governi in lotta contro la fame, favorevoli a importanti alleanze regionali, hanno ottenuto un pericolosissimo effetto collaterale: quello di aguzzare gli ingegni dei Thik Tanks di destra, grattare fra i codicilli, trovare pretesti apparentemente legali, per cacciare via governi –ciascuno diverso dagli altri, ciascuno rispettosa della sua particolare storia- che stavano indicando a tutti che un altro mondo è possibile.