Venerdì, mentre Monaco era sotto assedio, a Oslo si commemorava la strage di 5 anni fa: alla messa nella cattedrale hanno preso parte vertici governativi e famiglia reale, mentre in rete il partito laburista pubblicava un video a memoria delle giovani vittime.

In Baviera intanto si lavora ad un profilo attendibile del giovane attentatore. Ma già poche ore la strage che ha ucciso dieci persone nel centro commerciale di Olympia si è fatto strada il collegamento sinistro con quanto accaduto il 22 luglio 2011 a Oslo e nell’Isola di Utoya: il 18enne Ali Sonboly si è ispirato – dice la polizia bavarese – al più grave massacro compiuto nella storia da un singolo, Anders Behring Breivik, fanatico di estrema destra norvegese.

Le immagini di quella carneficina sono ancora scolpite nell’immaginario collettivo: le riprese dall’alto, sopra la piccola isola dove si stava svolgendo il tradizionale raduno dei giovani laburisti, hanno catturato la fuga, i tentativi disperati di nascondersi tra i boschi e in acqua, i corpi a terra. Resta scolpito anche il volto di Breivik, all’epoca 32enne, il sorriso compiaciuto, il saluto fascista ad ogni udienza del processo che lo ha condannato a 21 anni di prigione (il massimo della pena nel paese scandinavo).

L’attacco era stato preparato con dovizia di particolari e annunciato poco prima con un invio di massa a quasi 6mila indirizzi mail del “manifesto” di Breivik, “2083, una dichiarazione di indipendenza europea”: oltre 1.500 pagine nel quale il neonazista divide in capitoli la sua personale interpretazione delle piaghe che affliggerebbero l’Europa e la conseguente necessità di azioni violente da cui nasca un sistema nuovo.

Non va scambiato per lucida pazzia, un errore che nasconderebbe la “cultura” dell’estremismo di destra europeo, un misto di anti-marxismo e anti-islamismo, visione patriarcale della società e purezza della razza. E se gli obiettivi descritti da Breivik (una guerra civile che porti all’eliminazione fisica di comunisti e musulmani) potrebbero sembrare le elucubrazioni di un pazzo, non lo è la dettagliata descrizione dei problemi che ritiene vessino il vecchio continente e che si ritrovano nelle dichiarazioni e le azioni di gruppi neofascisti e neonazisti e in quelle di partiti xenofobi.

La supremazia bianca e cristiana, il nazionalismo estremo, l’avversione per multiculturalità e presenza del diverso: questo è il brodo di coltura in cui si sguazzano non solo “lupi solitari” ma gruppi organizzati. Il “manifesto” si conclude con le istruzioni tecniche per costruire ordigni esplosivi e preparare attacchi. Come quello da lui compiuto.

Per Breivik quel pomeriggio era iniziato alla guida di furgoncino imbottito di 950 kg di esplosivo nel quartiere di Oslo sede del palazzo del governo. L’esplosione, devastante, uccise 8 persone e ne ferì 209. Mentre partivano la macchina dei soccorsi e quella investigativa, Breivik raggiungeva senza fretta l’isola di Utoya. Lì, vestito da poliziotto, ci arrivò a bordo del traghetto pubblico: l’uniforme servì per fingersi inviato della polizia che andava ad avvertire i giovani laburisti dell’attentato nella capitale.

Poi la mattanza: con calma lucidità, disumana freddezza, Breivik ha caricato una pistola semiautomatica, una 9 millimetri e un fucile automatico (con sé aveva mille munizioni) e iniziato la caccia all’uomo, individuando il suo nemico (e quello dell’Europa a cui agogna) negli adolescenti membri della Workers’ Youth League, movimento laburista giovanile, accusati di accogliere immigrati sporcando la “purezza” della Norvegia e decostruirne «la cultura con l’immigrazione di massa dei musulmani». Prima di venire catturato dalle élite anti-terrorismo, Breivik ha ucciso 69 persone, tra i 14 e i 20 anni, delle circa 600 presenti al raduno.

Il resto è storia processuale: l’orgogliosa rivendicazione dell’attacco, la condanna a 21 anni (prorogabili di 5 nel caso alla fine della pena sarà considerato ancora un pericolo) e, più recentemente, la denuncia dello stesso Breivik che ha accusato lo Stato di «trattamento inumano» in prigione. Un appello vinto ad aprile: il tribunale di Oslo ha giudicato disumane le condizioni carcerarie (era in isolamento fin dal 2011) e condannato lo Stato a pagare 36mila euro di danni al terrorista.