Le decisioni comunitarie sulla gestione dei flussi migratori e il contrasto ai trafficanti sembrano sempre più divenire il pretesto per una ennesima operazione bellica in Libia, quasi a voler completare con la sempreverde motivazione umanitaria il lavoro lasciato a metà con l’eliminazione di Gheddafi.

L’idea della guerra agli scafisti, però, se comporta non pochi problemi di tattica militare, quali il rischio drammatico della perdita di civili, in particolare dei migranti stessi, offre anche una possibile motivazione a livello di Consiglio di Sicurezza Onu che tenga conto dell’attuale diritto internazionale.

Infatti, in questo caso, saremmo di fronte ad un’azione contro dei «nemici del genere umano», e dunque la casistica rientrerebbe felicemente nell’ambito della «guerra giusta», come nel caso dei pirati somali.

Questo formalismo giuridico, oramai acquisito dai tempi della guerra in ex Jugoslavia, ha una storia che va brevemente riassunta, per capire quanto violenta sia stata la torsione esercitata dagli interessi forti sul diritto internazionale dei diritti umani, tale da giustificare con esso vere e proprie azioni militari.

La «guerra giusta» era in origine di carattere religioso, dunque risale ai tempi precedenti la Pace di Vestfalia quando imperava lo jus gentium medievale e la concezione universalistica del potere teocratico-imperiale.

Dopo la fine della Guerra dei trent’anni si era affermato invece lo Stato moderno europeo, sovrano sia all’interno del proprio territorio, sia verso l’esterno, affrancato dall’autorità del pontefice romano e dunque estraneo alla dottrina medievale del bellum justum, la guerra giusta. A questo principio si sostituiva il riferimento all’eguale sovranità degli Stati attraverso il formalismo giuridico dello justus hostis, il nemico giusto, principio che attribuiva legittimità formale ad ogni guerra interstatale condotta da sovrani europei, riconosciuti titolari di eguali diritti, incluso il diritto di fare guerra.

Secondo Carl Schmitt questo passaggio aveva introdotto, tra l’altro, una netta distinzione fra il «nemico formalmente giusto», altri stati, e il nemico «criminale», ribelli o pirati. In questo modo il nemico «ingiusto» era passibile di sanzioni punitive di carattere penale, quando non della tortura e dell’uccisione sommaria.

Dopo qualche secolo, in opposizione a tutto questo, l’affermarsi della concezione universalista promossa dagli Stati Uniti dopo il primo conflitto mondiale – la loro entrata in guerra contro la Germania nel 1917 con la motivazione che questa fosse «nemica dell’umanità» – rilancia una nozione nella quale risuonano decise implicazioni etico-morali che, dunque, si sostituiscono al concetto giuridico di justus hostis per tornare a quello di guerra giusta, seppur secolarizzato.

[do action=”quote” autore=”Carl Schmitt, 1927″]«Chi dice umanità cerca di ingannarti»[/do]

 

E qui arriviamo alla situazione odierna: wer Menschheit sagt, will betrügen: chi dice umanità cerca di ingannarti, dice Schmitt già nel 1927 per esprimere il concetto che, se uno Stato, o un insieme di Stati, combattono il loro nemico in nome dell’umanità, la guerra che conducono non è automaticamente una guerra dell’umanità, anzi, cercano semplicemente di impadronirsi di un concetto universale per potersi identificare con esso a spese del nemico.

Ma c’è di più: utilizzare questo concetto nel corso di una guerra significa tentare di negare al nemico ogni qualità umana, dichiararlo hors-la-loi e hors-l’humanité, in modo da poter usare nei suoi confronti metodi non convenzionali.

In questo senso, dice ancora Schmitt, il termine «umanità» con il suo aggettivo «umanitario» diventa particolarmente idoneo alle espansioni imperialistiche. E dunque, conseguentemente, la guerra che si profila all’orizzonte non sarà soltanto una guerra «giusta» perché umanitaria, ma assumerà la forma di una permanente azione di polizia internazionale che userà legittimamente le armi contro i «nemici dell’umanità», nel nostro caso i trafficanti di esseri umani, paragonati più volte ai pirati ed ai negrieri, senza tenere conto della grande distinzione tra chi trafficava schiavi, cioè gente che non voleva essere espiantata dal suo territorio, e chi invece traffica quanti cercano un destino migliore spinti da ciò che si lasciano alle spalle.

Nella premessa all’edizione italiana di una raccolta di suoi saggi, Le categorie del politico, del 1971, Schmitt si esprime in termini ancora più espliciti: «Oggi l’umanità è intesa come una società unitaria, sostanzialmente già pacificata; al posto della politica mondiale dovrebbe quindi instaurarsi una polizia mondiale. A me sembra che il mondo di oggi e l’umanità moderna siano assai lontani dall’unità politica. La polizia non è qualcosa di apolitico. La politica mondiale è una politica molto intensiva, risultante da una volontà di pan-interventismo; essa è soltanto un tipo particolare di politica e non certo la più attraente: è, cioè, la politica della guerra civile mondiale».

Ecco come l’individuazione dei trafficanti come nemici dell’umanità giustificherà una ennesima azione bellica, naturalmente non risolutiva, ma che permetterà, nelle intenzioni della politica dell’azione umanitario-bellica, di ristabilire il controllo sul territorio libico, anche per impedire che le nostre coste vengano invase dai migranti e dunque fermarli sulla sponda sud del Mediterraneo che così si allargherà sempre più per contenere i morti che questa binomio di mancata accoglienza e azione militare inevitabilmente produrrà.