Il partito laburista «non ha sposato» la libertà di movimento dei lavoratori all’interno dell’Unione europea né si è impegnato a mantenerla una volta che i britannici avranno tagliati i ponti con essa.

Lo ha detto Jeremy Corbyn nel primo discorso del nuovo anno, iniziato con un sostanziale, anche se finora poco chiaro e ancor meno incoraggiante, rimaneggiamento delle posizioni ufficiali del partito su Brexit e immigrazione.

È la prima volta che il leader laburista si piega alla retorica populista che imperversa a livello nazionale, e non è chiaro quanto di questa posizione si debba a tatticismo e quanto a una sincera persuasione politica.

L’immigrazione e il suo controllo si sono rivelati dirimenti nell’esito referendario sfociato nella Brexit e stanno dominando tuttora il dibattito.

La prima, più generale, riguarda la posizione del Labour sul come e sul perché della Brexit stessa. È contraddistinta da una spaccatura fra gli elettori del nord – la working class impoverita e del tutto dimenticata dall’elite metropolitana «meridionale» che ha fornito i nuovi quadri del centrismo blairiano – in netta maggioranza a favore dell’uscita -, e la base socialmente affine all’ex leadership tecnocratica, che ne condivide le premesse ed è dunque filo-Ue, sebbene favorevole a contenere la libertà di movimento dei lavoratori.

Corbyn, che l’anno scorso era stato capace di sbaragliare i virulenti attacchi mossigli dalla destra liberal-liberista del partito grazie all’exploit di un numero di iscritti cresciuto a dismisura, si trova a fronteggiare un calo vistoso degli indici di gradimento del partito: i pur sempre discutibili sondaggi lo danno al 26% contro il 39 dei Tories al potere.

Un calo visto dai moderati, con in prima fila il vice Tom Watson, come conseguenza della finora adamantina determinazione del leader a non cadere nella retorica che considera il mancato controllo delle frontiere e dell’afflusso di manodopera immigrata a basso costo come deleterio per i salari nazionali. Ma che in realtà è in buona parte da addebitarsi al recente disinteresse del partito per la sua base storica di classe, nonché diretto responsabile della spaventosa emorragia di voti in Scozia, i cui effetti si sono tuttavia aggravati per una posizione sulla Brexit da parte del segretario volutamente vaga.

Sull’immigrazione Corbyn aveva finora tenuto una posizione internazionalista e dunque pro libera circolazione, mentre sull’uscita dall’Ue aveva volutamente evitato di esprimere posizioni nette. Ma questo temporeggiare stava assumendo i toni di una vera e propria sindrome attendista.

Colpevole di non sprizzare eurofilia da ogni poro, per la sua riluttanza a non voler competere con le destre euroscettiche adottandone la retorica sul fronte migranti, il leader è stato messo alla gogna da tutti i commentatori liberal, per tacere delle solite destre.

È dunque per rispondere agli incessanti attacchi in questo senso e per trasmettere una posizione meno equivoca su entrambe le questioni, che nel suo primo discorso del 2017 Jeremy Corbyn ha cercato di ritagliarsi un nuovo ruolo di leader populista di sinistra.

Quest’inizio d’anno ha visto il governo guidato da Theresa May continuare a coprire le proprie carte negoziali sulla Brexit con una cautela esasperatamente guardinga. Al punto da indurre ragionevolmente a ritenere che dietro si celi una totale indecisione su cosa fare: un attendismo tattico pericoloso e paralizzante, il cui fine ultimo è, all’interno, quello di deviare altrove gli sguardi preoccupati del paese, mentre all’esterno serve a sottrarre queste stesse carte all’occhiuta vigilanza degli altri giocatori europei.

Corbyn sta ora cercando di sfuggire a simili accuse d’immobilismo. Nel modo peggiore.