Il destino ce la mette tutta per farci capire, eppure sembra che intendere sia per molti una missione impossibile. Soprattutto per chi ci governa.

Raramente, nella storia recente, si sono verificate congiunture tanto limpide. Mentre in regioni critiche delicati equilibri geopolitici vanno in frantumi e ovunque si segnala il rischio di attentati, in molti paesi occidentali si profila la vittoria delle forze populiste. In Francia il Front National è il primo partito e da noi i 5 Stelle potrebbero far saltare il banco se si alleassero davvero con la Lega. In Austria Hofer ha perso per un soffio. In Germania la destra di Pegida e AfD è sempre più forte mentre in tutta l’Europa ex-socialista monta la marea neofascista. E finalmente a novembre sapremo se gli Stati Uniti saranno guidati da Donald Trump, candidato anti-lobby e anti-immigrati al cospetto del quale Ronald Reagan appare un gigante e George W. Bush un pacifista.

Si tratta di fenomeni diversi ma con almeno un denominatore in comune. Si raccoglie la tempesta seminata. Nel caso del «terrorismo islamico» è inoppugnabile. Senza le guerre del Golfo e l’Afghanistan; senza la produzione del caos in Libia e Siria; senza il contrasto dell’Islam sciita in funzione anti-russa e il costante sostegno alle politiche di apartheid e colonizzazione della destra israeliana – senza tutto questo (e senza il business delle armi e della paranoia securitaria) difficilmente il terrorismo sarebbe una minaccia globale.

Un ragionamento analogo vale per i populismi. La crisi, figlia del far west finanziario, ha solo radicalizzato le conseguenze di trent’anni di neoliberismo. La disoccupazione e la precarietà, la povertà di massa e il boom delle sperequazioni hanno seminato disperazione e collera. Di qui una indiscriminata pulsione nichilistica; di qui il diffuso desiderio di punire le oligarchie.

Nel caso di Trump la cifra anti-sistema è dichiarata, come l’estremismo. Che la rivolta contro le élites si affidi a un personaggio grottesco non disturba, perché l’essenziale è contrapporsi all’establishment. E proprio la polarizzazione dello scontro minaccia di regalare la vittoria al nuovo Stranamore. Questo schema vale anche per l’Europa.

Si obietterà che l’exploit dei populismi europei consegue all’«emergenza migranti», ma è semplicistico. A parte che anche l’afflusso in massa dal nord Africa e dal Medio Oriente è in larga misura frutto delle guerre occidentali, non è scritto che l’immigrazione debba alimentare il razzismo.

Certo, è una sfida. Ma se odio ed egoismo dilagano e fanno la fortuna degli imprenditori politici della xenofobia, è perché è mancata la lungimiranza, la capacità di programmare lo sviluppo in presenza di un fenomeno di lungo periodo sempre esorcizzato e affrontato navigando a vista.

Dopodiché si finge di ignorare quale sia la vera radice della rivolta contro questa Europa. Ci si dimentica dell’esproprio della volontà popolare e del dispotismo delle istituzioni sovranazionali. Del sentore diffuso che la democrazia è ormai una scatola vuota, e degli arbitrii di una tecnocrazia interessata solo ai grandi profitti. Come se si trattasse di principi astratti e non della vita quotidiana di milioni di famiglie proletarie e piccolo-borghesi.

In questo contesto cade ora il referendum sulla Brexit, forse l’evento che più di tutti rende il quadro leggibile.

È probabile – al di là della propaganda terroristica – che l’uscita produrrebbe seri effetti recessivi per lo shock valutario e la riduzione dell’interscambio commerciale, i contraccolpi sull’occupazione, l’aumento della pressione fiscale e i nuovi tagli al welfare (a spese dei soliti noti).

Se, ciò nonostante, il Leave resta forte (anche dopo l’assassinio di Jo Cox), non è solo perché in molti temono l’invasione dei turchi. Buona parte dei sudditi di Sua Maestà (a destra come a sinistra) desiderano sbattere la porta in faccia ai tecnocrati dell’Unione europea e, al tempo stesso, mandare un telegramma di fervidi insulti ai signori della City e ai loro lacchè politici.

È indubbio che Farage e Johnson fanno i propri interessi, ma questa Europa è la loro migliore alleata.

Insomma il quadro è chiarissimo, tanto più se si considerano precedenti non proprio remoti.

La storia del Novecento ha scritto le pagine più nere – i fascismi e la seconda guerra mondiale – a seguito delle crisi economiche e sociali provocate dal liberismo e dalla grande speculazione. Di fronte a questo scenario, chi sa che cosa vorrebbe dire un Trump alla Casa Bianca e un’Unione europea in pezzi dovrebbe fare innanzi tutto una cosa: cercare di capire le ragioni che spingono decine di milioni di europei e di americani verso l’estremismo populista, e farsene carico.

Invece, al contrario, si rilancia. Non vi è, da parte delle leadership, alcuna riflessione autocritica, soltanto proclami ricattatori e giudizi sprezzanti. Quindi – secondo tradizione – il muro contro muro.

A Trump le élites statunitensi oppongono l’incarnazione delle lobby finanziarie e guerresche. In Francia, contro la mobilitazione popolare per la loi travail, il governo socialista agita il pugno di ferro. Allo spettro della Brexit l’Europa risponde, per bocca del solito Schäuble, con anatemi e minacce.

Ciò significa, banalmente, che se vincerà il Remain non cambierà alcunché, come nulla è cambiato in Austria e in Francia dopo le miracolose sconfitte della destra. La grande paura non servirà a niente, i vincitori tireranno un sospiro come se nulla fosse accaduto.

Siamo ostaggi di classi dirigenti cieche e immemori. Di apprendisti stregoni ben più pericolosi di chi – per disperazione o ignoranza – si affida a gente come Trump, Farage o la Le Pen.