Non succedeva dal 1876. Per una delle crisi istituzionali più serie di sempre, la Corte suprema britannica convoca il collegio completo dei giudici: undici.

Saranno riuniti per quattro giorni, a partire da lunedì, per deliberare il ricorso in appello del governo May contro la recente decisione dell’Alta corte, che per ora obbliga la premier a consultare il parlamento sull’applicazione dell’articolo 50 del trattato di Lisbona che regola le modalità di abbandono dell’Unione da parte di un paese membro. Ieri, in diretta televisiva, si è aperta a Londra la prima delle quattro sedute. La giuria comprende undici tra i massimi giudici del paese, il verdetto si avrà ai primi di gennaio.

È la resa dei conti nel dissidio fra governo e parlamento britannico sulla questione dell’Articolo 50, che dovrebbe mettere in moto il colossale meccanismo Brexit fino al compimento, in due anni. Theresa May, più che mai riluttante a rivelare in parlamento la linea del governo sulla negoziazione, intendeva evitare del tutto il voto parlamentare, ben consapevole che questo è in maggioranza contrario all’exit. Per farlo, voleva ricorrere direttamente alla medievale Royal prerogative: poteri speciali di cui il sovrano investe l’esecutivo, autorizzandolo a scavalcare il parlamento in questioni che riguardano la ratifica o lo scioglimento di trattati.

Tra le quali rientrerebbe l’attuale, con il governo che deve mettere in pratica la volontà popolare espressa per via referendaria. L’ormai famoso Brexit is Brexit, dietro il quale, a parte occasionali indiscrezioni circa possibili condotte e scenari, regna ancora un fitto riserbo.

Ma la decisione dell’Alta corte in favore della manager d’investimenti Gina Miller, lo scorso 3 novembre, che stabiliva la sovranità del parlamento al di sopra di qualsiasi prerogative ed è stata accolta rabbiosamente dai tabloid, rischia comunque di ritardare drasticamente la tabella di marcia di May, che aveva indicato nel marzo 2017 la scadenza per l’applicazione dell’articolo 50. Allora i giudici stabilirono che l’uso della Royal prerogative contravveniva all’European Community Act del 1972 e che quindi il governo non poteva snobbare il parlamento.

Nelle prossime udienze, i legali del governo ripeteranno che il governo è libero di non dover richiedere il parere della camera bassa. E cercheranno di far passare l’interpretazione dell’European Community Act come di un mero veicolo attraverso il quale le leggi europee sono incorporate in quella britannica (e dunque modificabili attraverso la prerogativa). L’ironia sta nel fatto che l’Eca è la stessa legge che portò il paese a entrare nell’allora Cee, oggi Ue.

Per decidere, gli undici che hanno in mano il timone in questa tempestosa fase della politica nazionale dovranno poi chiarire la questione dell’irrevocabilità dell’articolo 50, giacché c’è chi la mette seriamente in questione. Si profila dunque un quadro in cui la corte suprema britannica si troverebbe costretta a chiedere il parere della Corte di giustizia europea su come poter uscire dall’Ue stessa: cosa che oltre a durare mesi, provocherebbe non poco risentimento nei leavers di un paese che sta riscoprendo un nazionalismo mai del tutto sopito.

Inoltre la vicenda ha ovvie implicazioni per i governi devoluti di Scozia e Galles, dal momento che saranno pesantemente chiamati in causa dalla Brexit.

Entrambi sostengono che il governo britannico non possa avvalersi della sola prerogativa reale e che bisogna consultare Westminster. In particolare la Scozia, dove un massiccio 62% ha votato per restare.