L’esito del referendum inglese sulla brexit ha provocato, comprensibilmente, uno shock in Eurolandia, tanto più per l’effetto sorpresa che le urne hanno alla fine riservato. Nondimeno, se per coglierne la reale portata, i suoi effetti strutturali, ci fermassimo soltanto alle conseguenze che a caldo lo stesso ha avuto sulle piazze finanziarie europee, finiremmo per imboccare la strada sbagliata. Un financial trader, infatti, non fa progetti politici, né si affligge per le sorti dell’economia reale.

Semplicemente, mira al massimo guadagno nel minor tempo possibile. E anche questa volta la regola non ha subito deroghe. Per rendersene conto, è sufficiente analizzare l’andamento dei listini delle borse europee a cavallo del referendum: dai generosi rialzi del 23 giugno (giorno del voto) si è passati ai crolli generalizzati del giorno successivo, poi attenuatisi alla riapertura del lunedì.

Già martedì, però, tutte le principali borse europee chiudevano in territorio positivo, con Piazza Affari che faceva registrare la performance migliore. In questo quadro, è interessante osservare come siano stati proprio i titoli bancari, in concorso con gli energetici, a tirare la volata ai listini nella seduta di martedì, dopo averne determinato il crollo nei giorni precedenti. A Milano, in particolare, dopo il venerdì nero, MPS ha fatto registrare un rialzo del +6,33%, Banco Popolare del +4,40%, Unicredit del +6,50%, Ubi Banca addirittura del +7,11%. Cosa è successo? Niente di strano e di nuovo: la giostra della speculazione (scommesse, vendite allo scoperto, strategia ribassista, ecc.) ha continuato a girare come sempre, sfruttando l’evento del momento. Tolti i titoli di Stato, che ora sono più protetti grazie allo scudo del Quantitative easing, quelli bancari, evidentemente, sono quelli che offrono maggiori “garanzie” di volatilità.

D’altronde, per una finanza speculativa che scommette sulla vita e la morte degli individui – a partire dal 2012, su iniziativa di Deutsche Bank, sui mercati europei sono arrivati, letteralmente, i death bond, «obbligazioni della morte», che consentono di lucrare sulla morte altrui, mediante l’acquisto di polizze sulla vita intestate a persone con salute cagionevole ed in difficoltà economica – un giro di walzer sulle note della brexit era irrinunciabile, per non dire scontato. Troppo ghiotta l’occasione per vendere a dieci un titolo acquistato ad otto, per poi riacquistarlo a cinque e continuare il gioco. Faites vos jeux, madame et monsieur!

Tutto a posto, quindi? Neanche per scherzo. Degli effetti concreti della brexit sulla tenuta dell’Europa e della sua economia, vedremo nei prossimi mesi ed anni. Intanto, la vicenda ha di nuovo accesso i riflettori sulla salute malferma del nostro sistema bancario e sui rischi sistemici che lo stesso corre. A prescindere dalla brexit, beninteso. Dall’Italia, dove i crediti deteriorati ammontano ormai ad oltre 350 miliardi di euro (16,7% del totale dei prestiti erogati), alla Germania, con i suoi 75mila miliardi di euro di derivati (20 volte il Pil tedesco) emessi in questi anni da Deutsche Bank, il sistema si presenta davvero come una bomba ad orologeria, pronto ad esplodere se non saranno adottati rimedi adeguati.

Nel complesso, i crediti a rischio, inesigibili, compromessi, sono stati stimati per la sola eurozona nell’ordine dei mille miliardi di euro (il 7% del Pil europeo). Una cifra colossale, che dovrebbe far riflettere sulla necessità, urgente, di mettere ordine nell’intricato sistema del trading finanziario ed in quello, più specifico, del credito. In questi giorni, da più parti, si è ricominciato a parlare di completamento dell’Unione bancaria, soprattutto per la parte relativa ad una garanzia comune sui depositi. Infatti, il processo, avviato nel 2012, ha fatto qualche passo avanti sul versante della vigilanza unica, ma si è fermato dinanzi alla definizione di un «Sistema europeo di assicurazione dei depositi (EDIS)», comunque previsto in una proposta legislativa della Commissione dello scorso novembre. A tenere banco, in queste ore, anche il tema, introdotto dall’Italia, ma che vede una forte contrarietà dei tedeschi, di una ricapitalizzazione delle banche in difficoltà mediante l’intervento diretto dello Stato nel loro capitale: un modo, ancora una volta, per far pagare ai cittadini il prezzo della crisi e delle scorribande speculative di questi anni infausti. Ipotesi, argomenti buttati nella discussione.

Tuttavia, sarebbe illusorio pensare che i problemi sul tappeto possano essere risolti senza mettere mano alle regole che attualmente sovrintendono le attività finanziarie e creditizie, a cominciare da quelle meramente speculative, che, per una parte significativa, hanno come terreno d’elezione i cosiddetti mercati ombra (dark pools), piazze di scambio non regolamentate, estranee ai circuiti ufficiali. Bene l’unione bancaria, dunque, ma innanzitutto si metta un freno all’uso spregiudicato ed abnorme della leva finanziaria, all’abuso di strumenti finanziari ad alto rischio, come derivati e Co.co bond (debiti convertiti in capitale), all’emissione esponenziale di moneta-credito da parte delle banche. Perché oggi commentiamo il giro di giostra della finanza speculativa sulla brexit (sondaggi della vigilia compresi), domani, magari, un altro evento scatenerà la libidine degli scommettitori, dopodomani, però, potremo ritrovarci in una crisi finanziaria più disastrosa di quella che ancora non riusciamo a metterci alle spalle. Se ne ha contezza presso le cancellerie europee? Sembra proprio di no. Peraltro, all’indomani del voto inglese, in alcuni paesi, a cominciare dall’Irlanda, ci si fregava già le mani all’idea di potersi spartire le spoglie della City di Londra. Altro che “sogno” europeo.