Nelle sue memorie uscite di recente a Mosca, Ellendea Proffer, fondatrice insieme al marito Carl della casa editrice Ardis, rievoca la capacità stupefacente di Iosif Brodskij di calamitare fin dai primi giorni del suo «esilio» americano l’attenzione finanche morbosa dei giornalisti in maniera del tutto involontaria e a dispetto della convinzione secondo la quale le scelte esistenziali di un poeta, per quanto eclatanti, non aggiungerebbero alcunché a quanto da lui scritto.

Approdato in circostanze fortunose nel 1972 dall’Urss ad Ann Arbour, nel Michigan, grazie all’aiuto degli stessi coniugi Proffer, l’autore leningradese avrebbe appreso ben presto, malgrado il suo innato riserbo, a misurarsi con la curiosità a volte ingenua o sensazionalistica destata dal processo per «parassitismo sociale» subito in patria nel 1964, nonché dal conseguente periodo trascorso al confino all’Estremo Nord, nella regione di Archangel’sk.

Ed è proprio su questa oscillazione tra istintivo ritegno e esposizione forzata del proprio io che si innesta la trama delle Conversazioni, pubblicate negli Stati Uniti nel 2002 e ora edite da Adelphi nella traduzione di Matteo Campagnoli («La collana dei casi», pp. 314, euro 20,00).

Che il confronto dialettico con i nuovi interlocutori occidentali non fosse esente da fraintendimenti talora imbarazzanti lo dimostra l’introduzione stessa a questa scelta di interviste. Difficile immaginare, infatti, una premessa che renda meno giustizia al volume in questione di quella imbastita con evidente goffaggine dalla curatrice Cynthia L. Haven, che peraltro di Brodskij fu allieva negli anni settanta alla Michigan University. In una sorta di excusatio non petita, Haven pare voler invocare la clemenza dei lettori nei confronti delle (presunte) intemperanze verbali e dei giudizi tranchant emessi dal poeta russo – bizzarrie tutto sommato perdonabili, commenta l’autrice, dal momento che Brodskij, una volta giunto in Occidente, si era ritrovato a lottare con «l’improvvisa irrilevanza sociale dell’esule». Se col trascorrere del tempo l’ex enfant-terrible di Leningrado divenne certamente sempre più consapevole del ruolo che il genere dell’intervista poteva svolgere nella costruzione della sua immagine pubblica, d’altro canto sarebbe un grave torto ridurre queste pagine a uno scomposto tentativo di imporsi al pubblico americano a suon di sentenze paradossali ricalcate sulle «strong opinions» di un altro esule illustre, Vladimir Nabokov.

Lungi dall’esaurirsi in una serie di soliloqui interrotti di tanto in tanto da soprassalti di disprezzo «acuto e pungente» (così Haven) nei confronti dell’intervistatore di turno, queste conversazioni riflettono piuttosto l’inesausto sforzo di Brodskij di distogliere l’interesse dell’interlocutore dalle vicende più o meno drammatiche della propria biografia, per ricollocarlo all’altezza dell’opera.

Questa tenace operazione di depistaggio, attuata grazie agli artifici retorici del paradosso e dell’ironia, non era ovviamente ispirata dal solo riserbo, ma si inquadrava in quella visione «massimalista» della poesia come dimensione esistenziale alternativa che trova forse la sua formulazione più efficace in una intervista del 1988 per «Threepenny Review»:

«La vita tende al cliché. Nell’arte lo possiamo evitare. È per questo che leggiamo. L’opera rigetta il cliché. È per questo che scriviamo».

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Illogico dunque insistere sulle convinzioni politiche o religiose di un poeta – così argomenta Brodskij – oppure volerlo trasformare a ogni costo in un dissidente, quando il poeta è per sua stessa natura un «esule» che ha deciso di abitare in un altrove radicale, eleggendo a sua dimora privilegiata la lingua. «Se per me esiste una divinità, questa è il linguaggio», confessava infatti Brodskij nel dicembre 1979 a Sven Birkerts, in una intervista poi pubblicata da «The Paris Review». Linguaggio che, in questa conversazione così come nelle pagine successive, si profila gradualmente come una sorta di motore immobile della creazione poetica. «Molto spesso», questa la candida rivelazione affidata sempre nel 1979 a Eva Burch e David Chin, «non hai nessuna immagine in testa, e a essere sincero non hai nemmeno nulla da dire. Le immagini e tutto il resto sono suggerite dalla lingua, nel suo processo di dispiegamento».

Se dunque l’origine di un componimento risiede non in una determinata immagine mentale, bensì nelle potenzialità inerenti al linguaggio, il ruolo del poeta consisterà nel dare forma a quell’effimera trama sonora che riecheggia al suo orecchio, ora più flebile, ora più distinta.

Riemerge qui la concezione elaborata da Marina Cvetaeva – autrice prediletta da Brodskij – che nel saggio del 1931 L’arte alla luce della coscienza, aveva ritratto il poeta «al servizio degli elementi naturali», assorto a trascrivere un «quadro ritmico o melodico» che sembra esser dato fin dall’inizio, «come se la cosa che in questo momento si sta scrivendo fosse già stata scritta da qualche parte, con precisione e per intero».

Ed è sull’intelaiatura preesistente di queste forme ritmiche di base che Brodskij fonda – con grande disdoro dei suoi interlocutori statunitensi fautori del verso libero – la libertà circoscritta del poeta, che consisterebbe non tanto nell’effusione incondizionata del proprio io, quanto nella capacità di trasporre la propria sensibilità contemporanea all’interno di schemi metrici fissi, percepiti non come meri artifici tecnici, bensì come formule magiche, «magneti spirituali», strumenti mnemonici in grado di trasmettere il pensiero dell’autore ai posteri.

Benché, infatti, sostenesse di scrivere per se stesso e il suo «probabile alter ego», Brodskij non rinunciava certo all’idea che ogni testo letterario fosse anch’esso una sorta di dialogo a distanza tra scrittore e lettore, «una conversazione del tutto privata che esclude tutti gli altri, un atto, se si vuole, di reciproca misantropia».

E all’interno di questo scambio tra spiriti egualmente asociali il poeta includeva com’è ovvio gli autori da lui amati e costantemente riletti – da Robert Frost, «poeta del terrore e dell’anticipazione negativa», fino a Konstantinos Kavafis, passando per gli idolatrati Cvetaeva e Wystan Hugh Auden, che in egual misura, benché con sfumature diverse, sembravano aver dato voce nelle loro composizioni a una personale «filosofia del disagio».

Allo stesso tempo, solo la poesia e quella particolarissima «educazione sentimentale» che è l’arte appaiono in grado di salvare l’uomo dal misto di «panico e noia» che in un’intervista del 1991 Brodskij, ormai poeta laureato d’America, nonché premio Nobel, definirà come lo stato d’animo a sua detta più comune. Una sensazione generata tra l’altro anche dall’espansione demografica ormai esponenziale (vera e propria ossessione per il poeta negli ultimi anni di vita) e dalla conseguente impossibilità di far risaltare sullo sfondo la propria personalità con mezzi che non siano quelli della produzione individuale: «Qualunque sia l’immagine a somiglianza della quale siamo stati creati, noi siamo già cinque miliardi, e per un essere umano non c’è altro futuro all’infuori di quello che l’arte promette».

Uscire dalla massa, creare dentro di sé un mondo indipendente attraverso la poesia, distinguersi dai propri simili – questo dunque era il guanto di sfida che Brodskij aveva lanciato a Leningrado negli anni sessanta e che avrebbe continuato a lanciare dall’altra sponda dell’oceano, come se la distanza tra sé e l’asfissiante etica collettivista che aveva dominato la sua giovinezza non fosse mai sufficientemente ampia.

Il pregio maggiore di queste Conversazioni consiste, per l’appunto, nel documentare le sfaccettature della propensione individualistica di Brodskij nell’arco degli anni, eleggendo il genere letterario dell’intervista come luogo privilegiato in cui il discorso dell’io autorale sulla propria opera si dipana in contrappunto con la fisionomia dell’intervistatore.

Fino alle ultime pagine, là dove Brodskij, tra malinconia e spavalderia, si sofferma sull’inevitabile esito ultimo della sua solitaria fuga in avanti: «Se dovessi definire la mia vita, forse la metafora più adatta sarebbe un’astronave: ricordo la stazione-madre, non conosco il luogo dove andrò a finire, ma è come se volessi andarci. Meno abitanti ci sono, più la cosa si fa interessante».