Al punto d’incontro tra la discoteca, la chiesa e le strade di un Bronx decrepito e fumante come un campo di battaglia: è la nascita dell’hip hop secondo Baz Luhrmann, nella nuova serie The Get Down, la prima produzione veramente kolossal (dieci milioni di dollari a episodio) di Netflix, e uno show complessivamente più ricco e audace dell’altro grande viaggio nella New York musicale del passato visto quest’anno in Tv, Vinyl, coprodotto da Martin Scorsese e Mick Jagger per Hbo.

 

 

Nonostante l’accuratezza filologico/musicale non sembri tra le preoccupazioni più pressanti delle serie, come Scorsese, anche Luhrmann, per passare dalla jazz age di The Great Gatsby agli albori della rap age, a metà anni Settanta, ha coinvolto collaboratori eccellenti, tra cui il leggendario Dj e musicista Grandmaster Flash e il drammaturgo/giornalista Nelson George, autore di alcuni dei libri fondamentali sull’hip hop. Diversamente dall’impianto tradizionale di Vinyl, a partire dal primo episodio diretto dallo stesso Luhrmann, The Get Down è una cacofonia di stili, texture, suggestioni e immaginari, ambientata in un universo mitologico del cui Dna partecipano Donna Summer e Bruce Lee, il boss della droga Nicky Barnes («Mr. Untouchable», secondo la copertina del New York Times Magazine del giungo ’77) e il futuro sindaco Ed Koch. Il tutto filtrato dai linguaggi del camp, della blaxploitation, della disco rage, della graffiti art, del documentario e del musical di Broadway.

 

 

Da Romeo + Juliet a Moulin Rouge a Gatsby, le storie d’amore giovani e contrastate sono un classico di Luhrmann. Quella di The Get Down – con le sue coreografie sullo sfondo dei tetti delle case popolari, di muri di mattoni sporchi e delle scale antincendio – sembra liberamente ispirata a West Side Story, Romeo e Giulietta ad Harlem, nel musical di Stephen Sondheim e Leonard Bernstein, portato al cinema dal suo coreografo, Jerome Robbins, e da Robert Wise.

 

 

Bronx 1977 – un  pianeta di edifici disabitati, o distrutti dalle fiamme, dove spadroneggiano spacciatori vestiti come Superfly e gang di ragazzini come quelle di I guerrieri della notte e tra cui scorre, come un treno magico sospeso nel vuoto, una metropolitana coperta di graffiti colorati. «Firmare» quei vagoni di metallo color argento, sfidando la comunque troppo indaffarata polizia, è – dice un personaggio- un modo di provare il proprio esistere.

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Invece di Tony e Maria, abbiamo Ezechiela (Justice Smith) e Mylene (Herizen F. Guardiola). Lui – magro, timido, l’afro gigante – è un giovane poeta aspirante rapper e devoto seguace di Shaolin Fantastic, leggenda fuori legge tra graffitari e musicisti che, grazie alle sue Puma rosse, salta di tetto in tetto, di scala di metallo in scala di metallo, come un super eroe. Lei – voce d’incanto, spirito affilato e contorni morbidi – sogna di fuggire e diventare una diva della disco music, ma è vessata dal possessivo e autoritario papà (Giancarlo Esposito), pastore di una chiesa per cui lei canta regolarmente, e da un volgarissimo capo gangster di nome Cadillac, che – vestito d’oro o di bianco – fa furore sulla pista della discoteca del quartiere.

 

 

L’altro grande protagonista della serie è il Bronx nella sua versione più disastrata, miserabile e pericolosa che Luhrmann – alternando genialmente alle immagini riprese oggi stralci di documentario «d’epoca» – trasforma in una wasteland tra il sogno, il fashion show, e l’incubo – una culla di contraddizioni e creatività (la bohème come milieu culturale continua a piacergli moltissimo) a cui, dalla New York gentrificata di oggi, non si può che guardare con romanticismo se non addirittura rimpianto. Su quello sfondo, allo stesso tempo infernale e dionisiaco, Jimmy Smits è Francisco «Papa Fuerte» Cruz, un politico del quartiere che promette alla nipote Mylene l’appuntamento con un discografico importante e il voto nero e latino al rampante Ed Koch, in corsa verso il municipio (nella realtà sarà sindaco per i successivi 12 anni), in cambio della costruzione di un complesso di case popolari, servizi e parco. Interpretato da Mamadou Athie, Grandmaster Flash -come Shaolin Fantastic- è meno un personaggio che una leggenda metropolitana, un profeta a cavallo tra fantasy e realtà.

 

 

 

Che è un po’ il registro in cui si muove tutta la serie, almeno nei sei episodi (su dodici) messi in rete per ora da Netflix -una teen age fantasy iconograficamente ispirata dalla vitalità elettrica delle immagini del fotografo Joe Conzo (uno dei primi e documentare l’hip hop), ma che ha le sue radici meno nella storia della città o della musica, che nelle sue rappresentazione (già mitizzanti) in film come, oltre a I guerrieri della notte, il musical Strade di fuoco, sempre di Walter Hill, The Wanderers di Philip Kaufman e, più recentemente, Summer of Sam, di Spike Lee. Mancano a The Get Down la durezza dell’asfalto e della miseria, il sapore pericoloso e seducente della violenza, l’odore di bruciato, l’amore per la cattiveria e della «città» che arricchivano l’elegia di quelle fiabe metropolitane, e le rendevano così struggenti. In quel senso, nella sua generosa, stravagante esuberanza, The Get Down rimane un gesto di superficie.