Stazione di dogana a Evzonoi, 72 chilometri a nord di Salonicco, 161 a sud di Skopie. Mohamed, siriano é appena arrivato da un lungo viaggio. É terrorizzato. Dai jihadisti perché lo potrebbero identificare, se sará fotografato, dagli europei che 24 ore prima l’ hanno malmenato selvaggiamente.

Tre mesi fa ha dovuto scappare insieme alla sua famiglia dalla guerra in Siria e ora ha deciso di rimpatriare. «Non ce la faccio più. Abbiamo attraversato la Turchia, la Grecia, altri paesi, camminando giorno e notte di nascosto per non essere fermati e una volta che siamo entrati in Ungheria ci hanno arrestato… i poliziotti mi hanno picchiato selvaggiamente di fronte ai miei figli, senza dire una parola, ci hanno preso le impronte e poi ci hanno lasciato. Siamo andati in Germania, ma li ci hanno respinto indietro, in Ungheria, dove ho sentito dire che non ci daranno mai l’ asilo».

Mohamed non sa e non vuole sapere niente del Regolamento del Dublino II, secondo il quale lo stato competente ad esaminare la richiesta del asilo politico é lo stato in cui il richiedente asilo ha messo piede per la prima volta nell’Unione europea, nel suo caso la Grecia.

Mohamed ha lasciato indietro in Ungheria la moglie e due figli, una di cinque anni e mezzo, l’ altra di quattro, sperando che prima o poi raggiungeranno la loro meta, la Svezia per vivere in dignitá. E lui si trova di nuovo sulla via dei profughi, ma in senso opposto.

Per Mohamed come per migliaia di profughi provenienti da paesi in stato di guerra, soprattutto dall’ Afghanistan e dalla Siria, Evzonoi, la stazione autostradale di dogana e Eidomenoi, l’ ultimo paesino greco a pochi metri dal confine sono la tappa obbligatoria verso i paesi del nord Europa. Questo é il nuovo percorso, quasi obbligatorio per chi passa dalla Grecia, visto che i controlli a Patrasso e Igoumenitsa sono ormai molto severi. Un percorso pieno di trappole e pericoli.

Nascosti tra gli alberi

A Eidomenoi, vicino al fiume Axios, siamo arrivati con l’intenzione di distribuire cibo, farmaci, coperte, rispondendo all’ appello drammatico di Vassilis Tsartsanis, giornalista dissocupato (lavorava all’Ert3, il canale pubblico chiuso da Samaras) che da cinque mesi non fa altro che aiutare i profughi «ingabbiati» nella zona confinante tra i due paesi, la Grecia e la Fyrom (l’ex Repubblica jugoslava di Macedonia). «Nessuno vuole rimanere nella Grecia della crisi, pochi riescono a evitare gli agenti slavo-macedoni che picchiano indiscriminatamente, come pure le bande criminali che rubano tutto – racconta Vassilis – e io rischio di essere considerato un trafficante, perché aiuto queste persone, ma bisogna farlo. Lo stato anche se volesse non puó fare un campo di accoglienza vicino al confine per loro che vogliono sfuggire in un altro paese europeo, perché cosi il governo greco sarebbe accusato dai suoi partner di facilitare i profughi clandestini» aggiunge.

È dal settembre scorso che in questa zona sono cresciuti i flussi migratori e gli abitanti dei paesi vicini, Kilkis e Polykastro si sono mobilitati, offrendo loro cibo, acqua, medicinali. Ma le esigenze sono superiori alle offerte.

Pure gli agenti della polizia greca chiudono un occhio di fronte alle condizioni disumane in cui si trovano i profughi in questo lungo viaggio della speranza.

foto di Pavlos Nerantzis
foto di Pavlos Nerantzis

Certo per chi viaggia di nascosto c’è sempre il timore di essere arrestato. Vassilis che fa da apripista per avvisare il nostro arrivo ad un gruppo di profughi che per il momento non vediamo, perché nascosti, racconta che «i siriani, appartenenti di solito alla classe media, pagano dieci euro a notte per dormire nei due hotel della zona. Le famiglie, invece, non pagano, perché gli albergatori sono sensibilizzati. Ora stiamo per incontrare degli afghani».Sotto un albero secolare, ad un passo da un torrente sporco e una linea ferroviaria abbandonata, in un paesaggio balcanico, incontriamo un gruppo di giovani. Arrivano, prima in pochi, poi pian piano aumentano di numero. In tutto una trentina, molti di loro hazari. Durante il giorno stanno nascosti, alcuni sottoterra, altri camuffati tra stoppie, alberi, case abbandonate, aspettando la notte per tentare di passare dall’altra parte del confine. Mangiano solo se qualcuno offre loro qualcosa, dormono ovunque sotto la pioggia con temperature invernali, si nascondono come le belve dagli uomini. Qui in due mesi sono morti di freddo due migranti.

Ai maltrattamenti si é aggiunta la crisi

«Le milizie talebane hanno ucciso mio padre e stavano cercando pure me. Sono un insegnante… in Grecia ho lavorato in nero a Kalamata. Non sono mai riuscito a regolarizzarmi, nonostante che avessi preso la carta rosa (per i richiedenti asilo politico). Mi sono stancato della Grecia. Oltre alla burocrazia e alla caccia contro ai migranti, adesso non c’é nemmeno lavoro nero. Voglio lavorare come tutti gli altri, voglio vivere in dignitá» dice Rasul Akbari, che è stato in Grecia per cinque anni.

Questi giovani – alcuni sembrano minorenni – raccontano la loro Odissea dall’ Afghanistan alla Grecia, un percorso pieno di violenze. In fuga dalla guerra in Afghanistan per il timore dei talibani, poi dall’Iran e la Turchia, dove non sono mai riusciti a chiedere asilo, alla fine sono arrivati in Grecia in gran parte attraversando lo stretto tra le coste dell’ Asia minore in Turchia e le isole elleniche.

«Dopo un tentativo fallito sono arrivato sull’isola di Lesvos e da li ad Atene. Ho fatto tutti i lavori, ma in Grecia ho capito che non danno l’asilo politico. In realtá non ti permettono nemmeno di chiederlo. Gli agenti della polizia e del porto, invece di aiutarti a chiedere asilo, ti malmenano, fanno di tutto per scoraggiarti… E adesso c’è anche la crisi. Devo cercare lavoro altrove in Germania, in Svezia, non so. Basta che vado via da qua prima che sia troppo tardi. Ecco perché mi trovo qui in mezzo al fango. Ero partito, ma a Skopie (capitale della Fyrom ndr) mi hanno arrestato e respinto indietro» racconta Bilal, che ha vissuto otto anni in Grecia.
Tutti o quasi avrebbero diritto a ricevere accoglienza e protezione in Europa, ma subiscono maltrattamenti, respingimenti, espulsioni. Tutti rientrano a pieno titolo nella definizione di rifugiato sancita dalla Convenzione di Ginevra del 1951, ma a tutti viene negato tutto, oltre al fatto che sono vittime di violenze in territorio europeo, soprattutto in sud Europa, dove l’ assistenza non é nemmeno in grado di offrire i servizi di base. Perció sono costretti a tentare ancora e ancora. E così ogni luogo diventa per loro precario.

Il pronto soccorso

Intanto cominciamo a distribuire vestiti, coperte, cibo, acqua, medicinali raccolti dalla Leschi Anagnossis dell’ Ert3 (il Circolo di lettura del Terzo canale pubblico) e dall’ attivista Anna Viga. Con noi tre membri del Hellenic Rescue Team (Squadra Ellenica di Salvataggio) con il responsabile delle operazioni Alexis Liamos e due giovani volontari, un medico e un’infermiera. Il cofano della nostra macchina diventa momentaneamente il letto del medico per esaminare i pazienti.

«Soffrono di assideramento, faringite, gastrite, infiammazioni polmonari e alcuni hanno evidenti i segni di botte. Se non fossero così giovani la situazione sarebbe peggiore» dice Teodoro.

Le bande e la polizia

Al momento arriva un gruppo di dieci persone. Due famiglie, tutti giovani, pure loro afghani. La notte prima avevano tentato di passare il confine, ma verso le prime ore del mattino, dopo un lungo percorso attraverso i boschi, sono stati fermati dalla polizia slavo-macedone. «Ogni sera vengono e almeno una cinquantina di loro viene respinta» dice Vassilis.

foto di Pavlos Nerantzis
foto di Pavlos Nerantzis

Una delle due donne piange. Qualcuno le offre acqua da bere. Un’altra donna sembra essere incinta. Kasimi é disperata. Appena diciannove anni con il marito di 25 anni, hanno già due figli, uno di tre anni, l’ altra di quattro. Il viaggio é ancora lungo. Le temperature rimangono basse.
Altri raccontano che i loro compatrioti sono stati malmenati dagli agenti della polizia slavo-macedone oppure derubati dalle bande. Nella zona del confine, dove i profughi rimangono almeno una settimana, a sentire loro, agiscono tre bande, uno di criminali africani, l’ altra di zingari, e la terza di afghani.

Mentre discutiamo a cinquanta metri di distanza, dall’altra parte del confine arriva un jeep con due agenti della polizia. «Sono loro che stamattina ci hanno cacciato via, nonostante che siamo in territorio ellenico», «Hanno distrutto le poche bottiglie di acqua che avevamo», «Ci malmenano» denunciano i giovani afghani. Questa volta sembra che la presenza della stampa e dell’Hellenic Rescue Team fa cambiare atteggiamento ai poliziotti.

Su un foglio di carta: «I love you…»

Ci spostiamo a due chilometri di distanza restando comunque sempre lungo la linea del confine. In mezzo a campi, vicino a un boschetto di alberi e ad una casa abbandonata oltre la frontiera, dopo il fischio sibilante di un loro connazionale, ecco che improvvisamente si presentano davanti ai nostri occhi decine di profughi, sono almeno una trentina. Sono intere famiglie che prendono volentieri tutto quello che gli viene offerto.

foto di Pavlos Nerantzis
foto di Pavlos Nerantzis

Una ragazza sta molto male, ma non vuole essere visitata dall’unico medico perché é maschio. Decidiamo allora di farla trasferire subito in un ospedale del paese vicino di Polykastro. Ma la polizia una volta arrivati nell’ospedale decide di arrestare la giovane. Insieme a lei anche il figlio minorenne. Dopo lunghe trattattive viene lasciata libera e subito dopo operata d’appendicite.
Murat fa con le sue dita il segno della vittoria. Un altro ride e ci fa vedere ció che ha disegnato su un foglio di carta poco prima. «I love you. This grup she is my help in Greece Serbia Barder», «Vi amo. Siete il gruppo che mi ha aiutato in Grecia e in Serbia».