Piero Bevilacqua è uno storico di professione. Nel suo ultimo libro però, dedicato a Giordano Bruno e appena pubblicato dalla Jaca Book, sembra cambiar mestiere e rinunciare, se non al rigore documentario, alla profondità temporale. Dialogano infatti senza distanza Piero e Giordano, lo storico e il filosofo, lontani nei secoli ma accomunati da una elettiva affinità, testimoniata sin dall’inizio, sin dal solo titolo: appunto Giordano (pp. 87, euro 12), solo con il nome, per evocare fratellanza e familiarità. Dialogano perché entrambi sono eretici, materialisti e passionali, radicali nel senso di Marx e poi convinti che il piccolo farà il grande, che dio, se esiste, è una mente naturale e che il particolare, il locale, sono le porte aperte per l’universale. Dialogano infine perché entrambi sono meridionali, illuminati dalla disperata e utopica «luce del Sud».

Piero Bevilacqua ha scelto di far parlare Giordano Bruno non in un saggio critico ma in una sceneggiatura per il teatro, essendo il teatro la forma espressiva più adatta, più del cinema stesso, a rappresentare la comunicazione viva. A teatro si colora la lingua, abbandona la rigidità e prende a prestito la voce immediata, quel dialetto così ricco di metafore, di immagini provenienti dal mondo naturale e animale, di memoria umana e di anima popolare. Tramite esso si può tornare alle radici, che per Giordano, come è noto, sono nel Tutto, nel Cosmo, in un Mondo di mondi infiniti, non diviso dai muri, dai confini, dalle frontiere, da quelle «fantastiche muraglie» che chiudono lo spazio e l’uomo nelle prigioni dell’odio, del pregiudizio, del particolarismo, dell’antropocentrismo, del razzismo, dell’autoritarismo.

Parla perciò in napoletano il giovane Giordano del primo Atto, seduto su uno scoglio, «lo scuoglio ’cchiu filosofico e Napule», da dove «il pensiero se ne può andare vagando come un gabbiano sull’acqua». È quasi fuggito dal suo convento, con quelle celle soffocanti e quelle litanie dei frati «comme si issero a ‘o patibolo». Cerca l’Aperto e ora gode quasi carnalmente di fronte a quel mare, alla sera dolce, al vento, alle stelle luminose dell’infinito firmamento. Gode per lo splendore della Grande Nutrice, la Natura Madre illimitata, immortale, una consolazione, ma anche un rischio e un abisso perché pensare l’infinito è «nu turmiento», perché quell’infinito non è un presepe, non è un ordine gerarchico prestabilito, ma un furore, un fremere, un palpito di Vita che si mescola, ovunque unica ma sempre diversa.

Non è solo però Giordano, su quello scoglio, ma con due pescatori analfabeti con cui si intende meglio che con i professori che più tardi incontrerà a Londra, a Parigi e a Praga. Così come non è solo nel secondo Atto, all’osteria, dove discute, fra vino, risate e parolacce, di altissimi principi teologici con una piccola folla di carrettieri illetterati, zingare e puttanieri impenitenti. È un Lumpenproletariat , un proletariato straccione ma generoso, più disponibile a sentire il nuovo umanesimo meticcio e tollerante.

E poi c’è dio, il dio naturale, in quel popolo che beve, fa l’amore, ride insieme, e agisce. L’azione è infatti il vero fine dell’umano, sia essa viaggio, lotta, ribellione, lavoro di mano, come cerca di dire Bruno, agli intellettuali del suo tempo, quegli eruditi veneziani del terzo Atto, opportunisti e contemplativi, pronti alla giustificazione, comodi nella posizione di chi ha scelto di stare nella Storia solo come spettatore.
Attore è invece sempre di più il nolano, con il passare degli anni protagonista di mille battaglie contro l’«asinità» delle Chiese trionfanti, contro le superstizioni, contro un potere sempre più tirannico. Finisce in prigione per questo, rinchiuso in una cella romana. Nel dialogo l’autore ne percepisce la sofferenza, percepisce la sofferenza di quest’uomo che aveva praticato, con il corpo e la mente, l’Aperto e che ora ha il soffitto al posto del cielo, le mura al posto delle piazze e delle strade.

Un giovane allievo mitiga la sua solitudine facendolo incontrare con un altro prigioniero, anche lui meridionale, «un angelo ribelle, un calabrese sempre in fuga, frate Domenico Campanella». I due si abbracciano mentre rievocano un altro ribelle, il cosentino Berardino Telesio, il filosofo «che ha indicato la strada». Se in quella cella ci fosse stato anche Bevilacqua, pure lui lo avrebbero abbracciato, ricordando magari Mario Alcaro, il filosofo che per primo in Italia ha raccontato l’importanza di un pensiero naturalista, sensista e materialista di origine meridionale.

È un pensiero che può far diventare dolce anche la morte, ricordandoci «che tutti torniamo in circolo nel grembo della Madre comune, dentro la quale tulle le creature son fatte della stessa sostanza, l’ape e le stelle». È un pensiero grande, da gigante, che, nell’ultimo Atto, dà forza al corpo invecchiato e minuto di Giordano. Lo hanno torturato, schiacciato, ma non vinto. Certo ha abiurato, ma poi ha abiurato l’abiura, pentendosi del suo stesso pentimento. Non è stato possibile cedere alla menzogna e alla sopraffazione. E poi, in quella cella, è tornata a splendere la luce del suo sole egiziano, del suo Oriente. La sua anima di mille anime, l’Anima Mundi, è volata fuori come un uccello nelle case della leggerezza mentre tutto intorno diventava più cupo, buio, pesante. Fuori il popolo di Roma aspetta impaziente il suo rogo.

Brucia perciò Giordano, fra gli applausi populisti, in quella piazza di turisti e di pizzerie dove ogni tanto, sotto la statua, compare un fiore. Ogni tanto, perché Bruno è stato in realtà dimenticato: il paradigma meccanicista lo ha irriso, il pensiero dogmatico ne ha rimosso lo scandalo.
Piero Bevilacqua ha invece restituito il suo dramma in questo libro di cuore e copertina rossa che contribuisce a declinare l’asse teorico e morale su cui rifondare i nuovi saperi della liberazione. Dovremmo perciò leggerlo e rappresentarlo, magari all’Università, lì dove Giordano giramondo non fu mai ma dove dovrebbe splendere – e Piero Bevilacqua ha impegnato tutta la vita e non solo questo libro per dirlo – «la viva fiamma della verità».