Dopo settimane di avvertimenti da una parte e di minacce dall’altra alla fine lo scontro tra Unione europea e Turchia è venuto alla luce in tutta la sua durezza. Bruxelles ha imposto ieri una brusca frenata alle ambizioni europee di Recep Tayyip Erdogan giudicando la Turchia «incompatibile a diventare un membro Ue» a causa della feroce repressione attuata nel paese dopo il fallito golpe di luglio. Parole che allontanano la prospettiva di una liberalizzazione dei visti che permetterebbe ai turchi di circolare all’interno dell’area Schengen – altro punto su cui Erdogan batte da sempre – scatenando l’immediata reazione di Ankara che è tornata a minacciare di far saltare l’accordo sui migranti siglato a marzo e di «aprire le porte» ai tre milioni di profughi siriani che oggi si trovano nel paese.

Per ora siamo solo alle minacce verbali, schermaglie nelle quali Bruxelles non chiude definitivamente la porta ad Ankara chiedendogli di «scegliere da che parte stare». Ma Erdogan ha già detto nei giorni scorsi di non voler aspettare la fine dell’anno per passare dalle parole ai fatti lasciando liberi i siriani di partire e ieri si è preso anche il lusso di ironizzare sull’altolà di Bruxelles: «E’ il loro timore, ecco perché non possono andare fino in fondo», ha detto riferendosi a una ripresa degli sbarchi.

La bocciatura di Ankara è arrivata con la presentazione del rapporto che ogni anno la Commissione Juncker prepara a proposito degli stati che chiedono di aderire alla Ue. Nel presentarlo all’Europarlamento il commissario per l’allargamento Johannes Hahn ha ricordato le migliaia di arresti di militari, giornalisti, accademici, funzionari pubblici e parlamentari avvenuti in Turchia da luglio, una repressione che ha di fatto messo a tacere ogni forma di opposizione.

Per Hahn tutto questo rappresenta il proseguimento di un processo di «arretramento dei diritti fondamentali» cominciato molto prima del tentato golpe. «E’ importante sottolineare che non c’è un arretramento solo da quest’anno o da questa estate. E’ un processo iniziato già da un paio d’anni».
Inevitabili le conclusioni: anche se Bruxelles è pronta ad assistere Ankara nel soddisfare tutti i criteri necessari ad arrivare alla liberalizzazione dei visti, è necessario che prima Erdogan metta fine alla repressione e cambi la legge anti-terrorismo, «per essere sicuri che non sia utilizzata contro l’opposizione». Fino ad allora la Turchia – dove perdipiù non è escluso che venga addirittura reintrodotta la pena di morte – resta un paese «incompatibile» con i valori dell’Europa.

Resta da vedere adesso cosa accadrà. Certo è che le prime reazioni non lasciano sperare nulla di buono. Quelle di Bruxelles «sono critiche tutt’altro che costruttive», ha commentato il ministro turco per gli Affari europei Omar Celik, mentre il portavoce del presidente è tornato a minacciare l’Europa avvertendo che lo stop ai negoziati per l’adesione della Turchia all’Ue «non resterà senza conseguenze».

La possibilità che non si tratti solo di minacce è più che reale e prima ancora di Bruxelles a pagare le conseguenze di un eventuale ritorsione sarebbero i siriani che si trovano nei campi profughi in Turchia. Senza contare che nel suo scontro con l’Europa Erdogan può farsi forte se non del consenso, almeno della neutralità del nuovo presidente degli Stati uniti, con cui vanta un buon rapporto. Trump ha infatti già chiarito di non voler interferire in nessun modo nel giro di vite attuato dal presidente turco dal giorno del fallito golpe. «Se sarò eletto presidente non farò pressioni sulla Turchia o su altri alleati autoritari che conducono purghe sui loro avversari politici o riducono le libertà civili», aveva promesso a luglio al New York Times. Anche per questo ieri Erdogan ha salutato con entusiasmo l’elezione del tycoon americano.