Per dirla con le parole del ministro degli Esteri Paolo Gentiloni «nessuno si messo di traverso», neanche la Gran Bretagna che pure solo fino a due giorni fa storceva la bocca ma che invece – probabilmente perché in uscita dell’Ue – alla fine ha preferito non interferire.

E così l’idea che l’Europa possa in tempi non lunghissimi dar vita a un sistema di difesa comune ha fatto ieri un primo passo a Bruxelles, dove il progetto è stato discusso nel vertice dei ministri degli Esteri e della Difesa.

Quella che ha ottenuto il via libera è una versione limitata rispetto al piano messo a punto dalla rappresentante della politica estera Ue Federica Mogherini, ma in compenso ha riscosso un favore unanime, paesi dell’est compresi.

Nella sua versione originale, discussa anche nel vertice di Bratislava di settembre, il piano prevedeva la creazione di unità multinazionali di intervento rapido da utilizzare – sotto la guida di un numero ristretto di Paesi – nelle situazioni di crisi internazionali, nonché la costituzione di una quartier generale a Bruxelles.

«Il passo del programma che è stato varato prevede alcuni passaggi», ha spiegato invece ieri Gentiloni. «In primo luogo la creazione di una struttura centrale di pianificazione europea, che non è ancora uno Stato maggiore europeo ma che è la premessa». Poi «un coordinamento delle attività di ricerca e sviluppo il cui obiettivo è ridurre le sovrapposizioni e le spese per l’industria militare».

Infine «la messa in comune di assetti su alcune questioni strategiche come l’intelligence, la copertura satellitare, i droni, i trasporti strategici, cioè le cornici comuni fondamentali per le azioni militari».

L’intero pacchetto di proposte dovrà adesso ricevere l’approvazione definitiva nel vertice dei capi di stato e di governo che si terrà a dicembre.

Secondo Gentiloni è stata la Brexit a dare la spinta necessaria perché, dopo decenni di tentativi finiti nel vuoto, si potesse passare a delle proposte concrete in materia di difesa comune. La Gran Bretagna si è infatti sempre detta contraria alla costituzione di un esercito europeo, visto come un di più rispetto alla Nato, ostacolo che adesso viene a mancare.

A questo va però aggiunto che – al di là delle dovute cautele diplomatiche – l’elezione di Donald Trump non rassicura affatto i partner europei circa le intenzioni del nuovo presidente americano.

Colpisce che l’unico politico del Vecchio continente incontrato dal giorno dell’elezione sia stato un antieuropeista come il leader dell’Ukip Nigel Farage.

E preoccupano le affermazioni fatte da Trump circa il futuro della Nato, la richiesta agli europei di una maggiore partecipazione alle sue spese e, soprattutto, l’annunciata intenzione di non interferire in eventuali piani di Putin nei paesi baltici. Ipotesi che non spaventa solo Estonia, Lituania e Lettonia, tre paesi che fanno parte dell’Alleanza e dalla quale dipendono per la loro difesa, ma l’intera Europa orientale.

Tutti elementi che alla fine hanno spinto i governi europei a mettere da parte le resistenze procedendo in direzione di una difesa comune nei confronti dell’Isis ma anche delle crisi del vicinato. Seppure con un piano limitato rispetto alle intenzioni, ma comunque definito dalla Mogherini come «ambizioso, concreto e pragmatico», e soprattutto «preparato a tempo di record».

Quello che probabilmente nascerà nella prossima primavera non sarà dunque un esercito europeo e inizialmente potrà avere l’adesione solo di alcuni Paesi e non di tutti gli stati membri dell’Unione (come previsto dai Trattati) dando così vita a una sorta di Schengen della difesa. Non sarà però neanche una sovrapposizione della Nato, il cui ruolo ieri a Bruxelles nessuno si è sognato di mettere in discussione.