In una domenica di ordinaria depressione italiana, tramortiti dal vero tsunami della disoccupazione, centomila persone vanno a votare per le primarie del sindaco di Roma. Ancora un sussulto di partecipazione, a conferma che la palude della politica nazionale non riesce a mortificarla del tutto. Come è una conferma la vittoria dell’outsider, il medico Ignazio Marino, preferito ai due candidati ortodossi, l’europarlamentare Sassoli e il deputato Gentiloni, lasciati molto indietro nelle percentuali pur se sostenuti dai big del partito. Anzi, l’esplicita adesione di Marino al no bersaniano alle larghe intese, gli è valsa l’accusa di essere un “estremista di sinistra”. Naturalmente accettata volentieri e sventolata dal vincitore come una bandiera.

Rispetto alle votazioni nazionali quello romano è un piccolo test, ma, a volerlo leggere, anche un grandissimo sondaggio. Una elezione primaria che il 26 e 27 maggio dovrà misurarsi nel confronto elettorale vero e proprio con le destre che a Roma, capitale del connubio tra lobby immobiliare e poteri ecclesiastici, sono sempre state molto forti. Tuttavia il largo consenso di Marino suggerisce alcune considerazioni sulla battaglia interna al Pd e, più in generale, sui suoi riverberi nella drammatica situazione del paese.

Quando sono in campo nomi che rappresentano esperienze e figure credibili (oggi Marino, ieri Zingaretti), che si tratti di esponenti della società civile o di partito, non fa più la differenza. A dimostrazione che la divisione non sempre passa per le forche caudine dell’anticasta. Per il presidente del Lazio non ha pesato l’imperativo grillino del chiunque è meglio di un politico (a proposito: i seimila euro che adesso i parlamentari a 5Stelle giudicano un equo compenso, invece dei duemilaecinquecento promessi in campagna elettorale?). Gli elettori sanno ancora distinguere, e l’anatema contro la casta non sempre viene ingoiato e digerito. Zingaretti è un politico di professione e una persona affidabile. Marino è un medico prestato alla politica, un cattolico fermo nel difendere i diritti civili, e viene votato dalla maggioranza degli elettori del Pd.

Se questo modello potesse esprimersi nella battaglia politica nazionale che ora si concentra sull’elezione del Presidente della Repubblica e nella formazione del nuovo governo, probabilmente ne deriverebbero risultati di qualche rilievo. Nonostante la martellante insistenza di Napolitanosulle “larghe intese”, se per il futuro capo dello stato il partito di Bersani avanzasse un nome credibile per il paese, anziché “affidabile” per Berlusconi (e quel nome è chiarissimo solo a volerlo vedere), il segretario potrebbe rischiare un largo consenso, anche in parlamento, persino dai fan di Grillo. Finora questo nome non è emerso, rendendo opaca una scelta che dovrebbe essere tanto più trasparente per quanto è decisiva.