«Un gancio, è come se ci avessero sferrato un pugno, di quelli che tramortiscono». Così parla un anziano di Bussi sul Tirino (Pe) mentre s’infila nel bar. C’è poca voglia di chiacchierare della sentenza della Corte d’Assise di Chieti che ha assolto tutti gli imputati nel processo della megadiscarica di veleni – e non è l’unica, perché più a monte ce ne sono altre – che da decenni staziona nel sottosuolo del piccolo comune, là dove scorre il fiume e sotto il ponte dell’autostrada. «Del resto – aggiunge una ragazza – i commenti non servono. Ma chiediamo: quale giustizia per i cittadini? Anche per quelli ammalati di tumore? E quale giustizia per l’ambiente?» E’ la domanda che risuona un po’ ovunque. I giudici hanno scagionato i 19 accusati, tra tecnici ed ex dirigenti della Montedison, ritenendo che il reato di avvelenamento delle acque non sia stato commesso, che «non sussiste». Mentre quello di disastro ambientale – recita in sostanza il dispositivo – c’è, ma è colposo, non doloso. Conclusioni all’italiana.

Il colosso chimico, con i suoi uomini – stando al verdetto -, mentre nascondeva, seppellendole, 500 mila tonnellate di scorie tossiche, derivanti da lavorazioni pericolose, non era cosciente di inquinare. E non voleva certo farlo. Ma come è possibile? E le lettere e le comunicazioni dell’epoca, girate all’interno dell’azienda o scambiate con i politici locali, nei quali si sollecita «al più presto la rimozione dei rifiuti sepolti» perché possono generare una catastrofe? E i documenti prodotti in aula dai pm, che dimostrano il nesso di causalità tra i fatti di reato e il gravissimo danno prodotto? Disastro colposo, in ogni caso, così è stato decretato, e, dunque, è prescritto. Ciò mentre, scartabellando dossier e studi degli ultimi tempi, rispuntano dati sconcertanti su quei terreni infarciti di sostanze nocive. Una ricerca Environ, effettuata per conto della Solvay, che ha rilevato gli stabilimenti del sito industriale di Bussi, evidenzia che il cloroformio è presente nelle quantità di 453mila volte oltre i limiti di legge, il tricloroetilene 193mila volte, il mercurio 2.100 volte e il diclorometano 1 milione di volte oltre i limiti. Una radiografia raccapricciante. Cifre iperboliche sono quelle relative agli sforamenti del tetracloruro di carbonio: 666 mila volte i limiti nella falda superficiale e 3.733 in quella profonda. Per l’Ispra (Istituto superiore per la ricerca e tutela ambientale) il danno stimato è di 8,5 miliardi di euro in un’area di 2 milioni di metri cubi di terreno. Per l’Istituto superiore di sanità «le azioni poste in essere nella mega discarica hanno pregiudicato tutti gli elementi fondamentali che presiedono e garantiscono la sicurezza delle acque, determinando cosi un rischio reale» per 700 mila cittadini della Val Pescara. «Non me la sento di prendere posizione prima della pubblicazione delle motivazioni della sentenza – afferma Enzo Di Salvatore, di Teramo, docente universitario, costituzionalista, autore di diverse pubblicazioni di carattere ambientale -, ma posso affermare che le conclusioni alle quali è pervenuta la Corte d’Assise si scontra senz’altro con quanto, da un punto di vista sostanziale, ci si poteva aspettare.

Nonostante la documentazione scientifica prodotta, l’avvelenamento delle acque non è stato riconosciuto. Altro discorso per il secondo capo d’imputazione, disastro doloso, derubricato in «disastro colposo», il cui differente trattamento sanzionatorio ha comportato l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione. E’ proprio su quest’ultimo punto che è opportuno svolgere sin da subito una considerazione. L’istituto della prescrizione, pur nel nobile intento di garantire il principio costituzionale della certezza del diritto, mostra nel settore dell’ambiente tutte le proprie debolezze. La risorsa ambientale è, infatti, per propria natura multiforme e sfuggente, e gli esiti delle azioni che vengono compiute spesso emergono solo dopo lunghi cicli biologici, dopo decenni, e come conseguenza di significativi progressi scientifici. La casistica lo dimostra ed il problema rischia, in questa materia, di divenire sistematico».

Sulla stessa linea l’avvocato Tommaso Navarra, legale del Wwf, parte civile nel processo Bussi: «Non si è affermata la responsabilità perché come avviene purtroppo in Italia, anche di frequente, caso Eternit insegna, il tempo per accertare è incompatibile con quello che occorre per affermare la responsabilità. Questo ci deve far riflettere: dobbiamo essere più vigili sul nostro territorio per non rimanere con il cerino acceso della bonifica». Ancora il Wwf: «Tre anni di indagini, sei anni di processo, 68 udienze, diciotto giudici tra gup, tribunale, Corte di Assise, Cassazione, 22 ordinanze, una sentenza. Ora aspettiamo di vedere chi paga…». Tutto ciò mentre il ministro dell’Ambiente, Gian Luca Galletti, annuncia «di voler proseguire, in sede civile, in grado di appello ed anche in Corte di Cassazione. Il ripristino ambientale di quella parte d’Abruzzo rappresenta una priorità».