Dominato da una battaglia che inizia verso il settantesimo minuto del film e che continua quasi fino alla fine, Lo Hobbit: la battaglia delle cinque armate è il capitolo delle trilogia che più si avvicina, per tono, scala e colori, a Il Signore degli anelli – il disegno di Peter Jackson quello che i suoi sei film tratti dai libri di J.R.R. Tolkien vengano visti seguendo il corso cronologico della storia, quindi a partire dalla seconda trilogia di film, quella dedicata a The Hobbit. La battaglia delle cinque armate è anche, per Jackson, la conclusione di una fulll immersion nell’epica e nella geografia tolkeniani durata più di sedici anni (iniziò a pensare a un film nel 1997), una gran finale in cui mette un po’ di tutto, come in un programma di fuochi d’artificio.

Al termine di questi sedici anni – e lo si sente nell’emozione e nella cura dei particolari con cui il regista neozelandese ha realizzato anche questo capitolo- sono cambiate molte cose. Intanto, questa Terra di mezzo popolata di hobbit, elfi, nani, orchi, maghi e dei loro valori mitici è diventata «sua» quasi quanto di Tolkien. Inoltre, certi stilemi visivi – a partire dall’uso congiunto di maestosi panorami naturali e Cgi e di drammatiche riprese dall’alto che precipitano vorticosamente verso il suolo per poi riprendere quota, sono entrati nel lessico visivo abituale del grosso cinema d’azione. Ma quello che più di tutto si deve a Jackson è di aver cambiato per sempre, nobilitandola, la fantasy cinematografica. Dopo i suoi adattamenti di The Hobbit e Il signore degli anelli, per fantasy non si intenderà mai più solo un’avventura camp popolata di uomini in calzamaglia e di donne che sembrano la parodia di un quadro preraffaelita.

Più dark e ricco d’azione dei due film che lo hanno preceduto, La battaglia delle cinque armate, inizia esattattamente dall’istante con cui si era concluso La desolazione di Smaug. Il terribile drago sputafuoco, stanato dalla sua caverna piena d’oro, plana furibondo sul paese acquatico di Pontelagolungo, seminando morte e terrore. Immersa in una notte illuminata solo dalle lanterne del paese zattera e dalla fiamme che escono dalla bocca del drago è una delle sequenze più emozionanti del film e che ne stabilisce il ritmo.
Forzando taglia e limiti narrativi del romanzo di Tolkien (scritto dal punto di vista dell’hobbit Bilbo Baggins ) ai fini di trarne tre lungometraggi, Jackson ha trasformato The Hobbit in un’esperienza molto più epica e corale di quella descritta sulla pagina. Tutte le voci e i temi che ci ha messo confluiscono e si scontrano in questo terzo film, con la fragorosa potenza di una sinfonia di Mahler o di un’opera di Wagner, ai piedi della Montagna solitaria.

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Meno preoccupato delle digressioni sui personaggi, di introdurre momenti comici (come aveva fatto in Lo Hobbit: un viaggio inaspettato) o di acrobazie visive quasi a sè stanti (come l’insuperabile corsa sul fiume in La desolazione di Smaug), La battaglia delle cinque armate è il film più vicino a un pezzo di musica, quindi in un certo senso il più astratto.

Riconquistata la terra ancestrale di Erebor, i nani e Bilbo vedono il valoroso leader nano Thorin soccombere alla maledizione dell’oro e all’ossessione per il possesso della pietra magica . Bilbo guarda il suo amico trasformato dalla paranoia e dalla cupidigia, mentre fuori dalla caverna del drago si radunano le armate degli elfi comandati a cavallo di un alce da Tharanduil, degli orrendi orchi di Sauron e degli umani sopravvissuti alla distruzione di Pontelagolungo. Tutti vogliono un pezzo dei contenuti della Montagna.

Per celebrare il suo addio a Tolkien, in onore di cui tornano anche Sauron il bianco (Christopher Lee), Gandalf (Ian McKellen), la regina degli elfi Galadriel (Cate Blanchett) e l’arciere Legolas (Orlando Bloom), Jackson non risparmia nulla inscenando uno scontro finale in cui un’inesauribile serie di creature e guerrieri sembrano scaturiscono dalla terra e calare come cascate dalle pendici delle montagne. Tra le scene più belle e ricche di fantasia quella ambientata sul ghiaccio.